Archivio mensile:febbraio 2015

Il Memorandum della Città

Più che un “cahier de doleances”, ossia “quaderno delle lamentele”, come quelli degli Stati Generali durante la Rivoluzione Francese, sembra un memorandum della Trojka. Ed è comunque una notizia che il sindaco di Catanzaro scriva una lettera al Governatore della Calabria, Mario Oliverio. Lo è per due motivi: il primo è che semmai dovrebbe essere il contrario, vale a dire che il Governatore della Calabria, in teoria, dovrebbe informarsi lui in persona del problemi del Capoluogo di Regione, cosa che invece a più di quattro mesi dall’elezione non è ancora avvenuta, almeno pubblicamente; il secondo motivo di stupore, leggendo la lettera del sindaco, è che alcune lamentele appaiono “a scoppio ritardato”, visti i danni incalcolabili già causati dalle Amministrazioni che hanno governato la Calabria negli anni precedenti, partendo dall’ultima di Scopelliti per andare poi indietro di diversi anni.

Detto questo, lasciamo perdere i convenevoli e le formalità della lettera, che contano come il due di picche, esattamente come l’attivismo (si fa per dire) della politica cittadina, regionale e centrale di ogni colore da molti anni a questa parte. Concentriamoci invece sui contenuti della lettera, perché c’è molto da dire.

Il primo è purtroppo di strettissima attualità, e riguarda la Fondazione Campanella. A tal proposito, così si legge nella lettera: “L’estinzione giuridica della Fondazione rappresenta una grave sconfitta per tutta la classe politica regionale, di destra, di centro e di sinistra. Occorre individuare una nuova proposta che consenta di recuperare il posto di lavoro per i 245 dipendenti mandati a casa e nel contempo salvaguardare il patrimonio scientifico e assistenziale garantito per anni dalla struttura. Esiste il drammatico problema degli oltre 400 pazienti che si sottopongono alla chemioterapia che non possono essere lasciati allo sbando”. Più che di grave sconfitta, possiamo dire che la politica calabrese nel suo insieme ha mostrato in questa vicenda il peggio di sé stessa. La Fondazione Campanella, nei suoi dieci anni di vita e di meritoria attività, per colpa della politica ha avuto la vita appesa a un filo, esattamente come quella dei suoi pazienti. E la Giunta Scopelliti, con la decisiva collaborazione del Consiglio Regionale, ha dato la mazzata finale. E gli altri partiti? Solo parole, mai un fatto. E queste cose il sindaco le sa, essendo anche lui parte in causa non meno degli altri. In pochi mesi, era difficile raccogliere e rimettere insieme i milioni di pezzetti in cui è stata frantumata la fondazione. Di recente, quando si è trattato almeno di salvare i lavoratori con l’emendamento del decreto Milleproroghe, Forza Italia e il Movimento 5 Stelle si sono accoppiati nel dire no, uniti nel disinteresse. Nessun politico è incolpevole in questa vicenda, e neanche il Pd non si è impegnato, né tantomeno ha fatto i salti mortali per giungere a una soluzione positiva.

Altri due argomenti riguardano l’azienda ospedaliera “Pugliese-Ciaccio” e il nuovo ospedale. Riguardo all’azienda si evidenzia come “uno dei più grandi ospedali della Calabria è ridotto allo stremo per una drammatica carenza di personale: rispetto al piano aziendale del 2008 mancano 100 medici, di cui 22 direttori di struttura, 180 operatori, 120 infermieri, 12 ostetriche, 26 tecnici di laboratorio, 25 tecnici di radiologia, 14 fisioterapisti, dati che sono stati diffusi dalle organizzazioni sindacali”. Una regione controllata a vista da commissari ad acta per la sanità che la sorvegliano da anni come gendarmi si permette di far fiunzionare un ospedale regionale che vede arrivare pazienti da tutta la Regione come se fosse quasi una guardia medica. I numeri sono impressionanti e pare che l’unico problema regionale in materia di sanità sia il Centro Cuore di Reggio Calabria, di cui non si vede la reale utilità, viste le strutture d’ecellenza in cardiochirurgia esistenti in Calabria, e che Scopelliti cercava di attribuire a Loiero nonostante lo avesse caldeggiato lui stesso. Il paradosso è che il Governo lascia la Calabria senza commissario per la sanità e Oliverio non si sta spellando le mani per ottenere la nomina.

Terzo argomento, molto spinoso ed inspiegabile (e non è il solo): il nuovo ospedale. A tal proposito, viene precisato che: “Mentre stanno andando avanti le procedure per l’apertura dei cantieri dei nuovi ospedali di Vibo Valentia, Gioia Tauro e Sibaritide, oggetto anche di una specifica riunione della Giunta regionale, non si ha nessuna notizia del finanziamento e del progetto per il nuovo ospedale di Catanzaro, assolutamente necessario per superare le carenze strutturali e logistiche del “Pugliese” e per realizzare l’integrazione con l’Università”. Del nuovo ospedale parlò per la prima volta Agazio Loiero nel 2008. Da allora è rimasto solo sulla carta. Anzi, forse nemmeno su carta. È dignitoso questo silenzio? E c’è davvero qualche politico, di tutti gli schieramenti, che ritiene di non essere colpevole?

Altro silenzio inspiegabile è quello sulla Metropolitana di Superficie. La città di Catanzaro, se davvero aspira ad uno sviluppo organico e complessivo, deve dotarsi NECESSARIAMENTE (scusate le maiuscole) di un efficiente e completo sistema di trasporti. Eppure, a leggere la nota “l’opera è stata appaltata dalla Stazione Unica Appaltante, ma ancora non si hanno notizie sulla firma del contratto e sulla consegna dei lavori”. Qui le responsabilità sono attuali e dirette: per quanto tempo la Regione giocherà ancora a nascondino?

Altro argomento su cui la politica regionale sta camminando sul filo dell’indecenza da anni è quello dei rifiuti. Di raccolta differenziata se ne parla, almeno a Catanzaro, solo a livello di slogan, mentre il resto della Calabria intasa per la maggior parte le discariche di Alli e Pianopoli, dando vita ad una dimostrazione di menefreghismo ed egoismo senza pari. Nella lettera si specifica per esempio che “tra pochi mesi l’intero sistema calabrese di smaltimento dei rifiuti andrà in tilt, poiché gli impianti di Alli e di Pianopoli sono ormai esausti. Non si ha alcuna notizia di come affrontare l’inevitabile emergenza, né dei provvedimenti che si intendono adottare per dotare la Provincia di Cosenza di impianti autonomi”. Allarmi giustificati, per una Provincia di Catanzaro che grazie all’egoismo di cui sopra continua ad essere la pattumiera della Calabria. Per quanto riguarda Catanzaro, l’unica soluzione potrebbe essere un programma di raccolta differenziata, possibilmente a ritmi forzati, di cui finora c’è solo un embrione di progetto.

Altro problema su cui si fanno orecchie da mercante da anni è quello delle condotte idriche. A Catanzaro l’acqua manca a quartieri alterni un giorno sì e l’altro pure, mentre la condotta di Santa Domenica, costruita dalla Cassa del Mezzogiorno nel suo momento peggiore, si guasta senza soluzione di continuità dal 1981 o giù di lì. La popolazione è giustamente esasperata, ma nessuna amministrazione si è mai impegnata fattivamente. Nella lettera si fa giustamente la voce grossa con la Regione, affemando che “la condotta idrica dell’Alli, che serve gran parte del Capoluogo, scorre per chilometri sul letto del fiume e le continue rotture determinano disagi insopportabili per la città di Catanzaro. Regione e Sorical si erano impegnate ad intervenire con un massiccio investimento per ammodernare e mettere in sicurezza la condotta”. Presidente della Sorical per molti anni, Sergio Abramo è stato chiamato in causa, ma ha sempre dichiarato di non avere avuto abbastanza poteri per risolvere la questione. Di sicuro, un presidente di una società del genere dovrebbe avere persino più poteri di un Presidente della Repubblica, vista la materia sostanziale che muove e il giro d’affari.

Altro argomento: apertura della Cittadella Regionale. La struttura è pressochè terminata, ma i tempi sono incerti e non solo quelli. E nella lettera si specifica: “L’imminente apertura della Cittadella regionale presuppone un ragionamento tra Regione e Comune sulla gestione e sull’organizzazione dell’area della Valle del Corace, nonché una riflessione sulle strutture di proprietà regionale che resteranno inutilizzate nel centro storico di Catanzaro”. In poche parole: c’è tempo. Sì, ma quanto?

Penultimo punto, nonché apice del paradosso: l’Ardis. Da una struttura commissariata da anni, nonché distintasi per immobilismo, cosa ci si aspettava di spremere ancora? Emblematico, per esempio, fu il concorso Ardis indetto nel 2004, annullato il giorno della prova orale per presunte irregolarità. Non se ne parlò più: evidentemente le irregolarità non erano tanto presunte. Gli aspiranti lavoratori sono stati fortunati, se così si può dire, almeno oggi non fanno lo sciopero della fame per chiedere di essere ricollocati. Siamo d’accordo, “va affrontata la questione dei 14 lavoratori Ardis che reclamano giustamente soluzioni e rassicurazioni per il loro futuro”, ma la precedente amministrazione regionale, quando furono trasferite in extremis le funzioni dell’Ardis all’Università “Magna Graecia”, non poteva preocuparsi anche dei dipendenti? Era troppo disturbo?

Ultimo argomento, praticamente un’inezia rispetto alla gravità e all’importanza di quelli precedenti: la Fondazione Politeama: “La Regione è socio fondatore della Fondazione Politeama-Città di Catanzaro. Occorre capire la volontà della Regione in ordine alla sua partecipazione all’attività del Teatro del Capoluogo, a cominciare dal sostegno economico”. C’è volontà di investire o di fare carrozzone? La risposta spetta ad entrambe le parti.

AURELIO FULCINITI

Ciacismi

Secondo voi, l’opera nella foto è da buttar via? No di certo, la “donna al volante” è una delle più conosciute fra le opere di mastro Saverio Rotundo, per tutti il Ciacio (o “u Ciaciu”, per chi ama il dialetto, ma l’artista è fuori dai confini e il nome pure). Eppure è stata per tanti anni nel deposito dell’artista, in via Carlo V che, ancora una volta, si è cercato di far passare per discarica. Hanno tentato di farla passare per spazzatura, un’opera simile, quando la piazzarono al centro di una delle “rotonde” di Santa Maria, a Sud della città. Voleva essere un omaggio al suo autore, ma poi la mancata cura e le erbacce circostanti la fecero diventare più o meno una presa in giro. E il Ciacio, che è furbo e capisce benissimo il confine fra l’omaggio sincero e la presa per i fondelli, la riportò indietro con sé.

Una sua opera, semmai, ci starebbe bene al Parco della Biodiversità. Un sogno mai realizzato – sempre ammesso che lui ci tenga, ma in tanti ci sperano – che avrebbe un suo perché. Accanto a un Daniel Buren e ad un Mimmo Paladino, tanto per dirne due, un Ciacio ci starebbe bene.

Classe 1923, tenace, variopinto e pittoresco, risvegliatore (spesso inascoltato) di coscienze, anarchico allo stato puro, artisticamente e come stile di vita, con la sua abilità indiscussa di fabbro (il suo reale mestiere, d’altronde) ha trasformato il rottame in un’opera d’arte, attribuendo alla ferraglia, in più occasioni, un linguaggio più che eloquente. In un’arte contemporanea dove i concetti si esprimono, lui è riuscito a farli gridare. E non è poco.

Da quasi totale autodidatta, ha conseguito fra l’altro il diploma di scultura all’Accademia di Belle Arti. Nei suoi studi, l’esperienza ha battuto di gran lunga l’eloquio. E non poteva essere altrimenti. In una città non troppo positiva ed entusiasta per costituzione, per molti anni non è stato capito. Non c’era nessuna mente che potesse stargli dietro, in termini vulcanici. E neanche i docenti e i critici – salvo rarissime eccezioni – lo hanno valutato come meritava.

Anni fa, ottobre 2006, durante una fluviale intervista, ancora inedita, ideata da chi scrive (un’ora filata in video e un’ora e mezza su bobina), il Ciacio oltre a parlare di sé stesso a tutto tondo, parlò di quella che considerava la più grande soddisfazione “critica”, che aveva ricevuto, ancora maggiore perché arrivava da un illustre collega, Arnaldo Pomodoro (scultore fra l’altro del celebre Disco di piazza Meda, a Milano, e di tante altre opere in tutto il mondo). A Capri, lo scultore milanese, dopo averlo visto al lavoro, glielo disse chiaramente, con la voce che Saverio definisce – parole sue – “grossolana” (il classico “vocione”, diciamo): “Voglio assolutamente una tua opera originale”. E la volontà fu esaudita.

A differenza di molti suoi concittadini che non lo hanno calcolato per decenni, negli ultimi anni ha ricevuto degna considerazione dai giovani. Prima ci fu la grande mostra del 2006 al Centro Polivalente di via Fontana Vecchia – forse la più completa in assoluto dedicata al genio del Ciacio – accompagnata dal documentario L’arte è chi la fa, molto curato e con una colonna sonora d’eccezione (Tom Waits, per dirne uno) ma pressochè introvabile. Gli omaggi si sono poi susseguiti nel corso degli anni, sino al trionfo di Concentrica fra dicembre e gennaio, esposizione in cui è stato l’ospite d’onore.

Attualmente il Ciacio è impossibilitato a muoversi per un grave problema di salute occorsogli di recente, ma confidiamo di rivederlo presto in giro, con la sua spinta da eterno resistente.

AURELIO FULCINITI

(P.S. – La foto è opera del sottoscritto, che solitamente è un pessimo fotografo, ed è stata scattata durante la mostra che si tenne al Centro Polivalente di via Fontana Vecchia nel 2006 e fa parte di un corposo album, anche questo inedito. Se proprio ci tenete a farne uso, almeno citate la fonte: gratificherete un dilettante allo stato puro).

Passaggi in Corso.

In questa città abbiamo perso tante cose, ma siamo stati capaci di perdere anche la dote più preziosa: la classe. Sì, perché solo un popolo privo di classe e di stile può abbandonare un salotto come corso Mazzini, uno dei luoghi che le altre città calabresi – di solito non tenere verso la nostra, per motivi di invidia e non solo – hanno sempre ammirato. Invece il cittadino medio, pronto al lavaggio del cervello, si è fatto distrarre verso le periferie dei centri commerciali da progetti più o meno occulti, proprietari di immobili attaccati al centesimo e imprenditori (soprattutto piccoli) che dopo aver dato lustro per anni al corso cittadino hanno preferito spostarsi al coperto, nelle periferie, senza provare alcuno scrupolo nell’aver distrutto il tessuto economico di una via che ha una storia più che centenaria e che meritava ben altra attenzione.

Ma anche i cittadini hanno dato una grossa mano a tutti quelli sopra citati, perché ciò accadesse. Un certo tipo di cittadino medio, da persona di classe è diventato di periferia. In tutti i sensi. E quindi si lancia nel luogo che gli è congeniale come mentalità.

Ci sono negozi che hanno chiuso e non hanno più riaperto (dopo la chiusura del punto vendita Oviesse-Conad in Piazza Matteotti, Catanzaro è forse l’unica città d’Italia a non avere i grandi magazzini nel centro storico), “plurimarche” che dopo un’attività trentennale hanno spostato la loro attività per puro interesse personale e non certo per motivi economici, anche perché la clientela non mancava. A Catanzaro centro, per esempio, non esiste un negozio di scarpe di qualità, ed è un altro scandalo.

Nessuno di questi negozi è stato sostituito da esercizi commerciali di pari livello. In Comune finora ci hanno riempiti di parole con il rilancio, per esempio, di una Galleria Mancuso oggi abbandonata ma che avrebbe dovuto vedere il rilancio con negozi di aziende famose, ma ad oggi non si è visto niente di niente.

Se poi a questo ci mettiamo iniziative comunali come l’isola pedonale, apprezzate dai cittadini ma nei fatti quasi mai applicate, c’è da dire che anche dal punto di vista amministrativo stanno diventando periferici, anche come mentalità. Senza contare le strisce blu dei parcheggi che nella zona marinara non esistono perché “Lido deve crescere”. E il Centro Storico no?

Tutto troppo miope per essere vero, ma purtroppo è realtà.

Ma nel corso Mazzini c’è chi resiste. Resiste chi ha classe, chi sa vendere, chi privilegia la qualità (possibilmente alta), chi riesce ad accogliere il cliente, chi ha professionalità. Ci sono anche quelli che non ne hanno, ma sono già chiusi o in via di chiusura. In un negozio “storico” di Catanzaro, che adesso si è trasferito in Galleria Mancuso, non avranno mai difficoltà a cambiare un capo di abbigliamento, anche senza scontrino. Sono talmente sicuri dell’esclusività e della qualità della loro merce, che non hanno alcun dubbio di avervela venduta e soprattutto che sia la loro. Provate a chiedere la stessa cosa a un’anonima commessa di un centro commerciale? Provate…

La decadenza di un luogo così è questione di classe. Non c’è da chiedere tanto: basta che ritorni la classe, oggi offuscata dalle periferie.

La periferia non è un luogo, né un’offesa, bensì la metafora di una città tagliata in due anche nel rispetto e nell’appartenenza.

AURELIO FULCINITI

Iati cogliti riganu ara scisa i Paola

Il titolo di questo pezzo lo dedichiamo ai rossoblù doc, quelli che “noi cosenDini non abbiamo accenDo”, e logicamente in quanto doc non possono che essere tifosi di una squadra che ha cambiato denominazioni ed acquistato titoli sportivi come fossero caramelle ed è riuscita nell’impresa di fare una stracittadina contro il nulla. Per nulla intendiamo una squadra con lo stesso nome che è volata via come un soffio di vento, tanto per restare nel tema  giallorosso. Anche oggi, come succede regolarmente da 31 anni a questa parte, si tratti di Serie B, C/1 o Lega Pro, sono sempre lì, chini, a raccogliere origano. E non solo alla discesa di Paola. Qualche mese fa, in Coppa Italia, hanno avuto il loro momento di gloria vincendo contro una squadra di riserve, ma in campionato per quanti sforzi facciano c’è sempre il cestino per l’origano a fargli compagnia. Ne raccolgono da oltre sessant’anni, quelli dall’unica loro vittoria in campionato, e da allora hanno fatto anche una buona scorta di patate, sempre in senso metaforico. Sono patate a livello di gol, e ognuna vale per sei. Un certo Massimo Palanca, per esempio, gliene ha portate in dote cinque, che moltiplicate per sei cadauna fanno trenta. Mica male come bottino! Altre diciotto patate le ha portate sul groppone rossoblù Leonardo Surro, dodici Roberto Tavola e sei Paolo Benetti e Gregorio Mauro. Mica male come raccolta di tuberi, a cui oggi si sono aggiunte quelle dell’ultimo arrivato, Vittorio Bernardo. Invece l’ultima patata cosentina, che invece di proliferare si è rimpicciolita ed è diventata microscopica, risale al lontano 1984 e fu opera di tale Fabrizio del Rosso da Montecatini Terme, al quale i cusenDini dovrebbero fare un monumento a futura memoria, visto e considerato che da 31 anni non riescono a vedere la porta.

È mancato un gol su rigore, alle vittorie giallorosse nel corso degli anni. Ma il motivo lo spiegò simpaticamente il grande arbitro Concetto Lo Bello, negli anni Sessanta di un secolo appena passato, al presidentissimo Nicola Ceravolo che lamentava la mancata concessione di un rigore sul campo del Cosenza, dopo una partita finita in parità: “Ma lei veramente pensava di vincere il debby con un rigore fischiato da Lo Bello?”. Ma chi se ne importa del rigore: non ha musica, come diceva Pelè. Un colpo di testa di Palanca o di Vittorio Bernardo vale quanto una sinfonia.

AURELIO FULCINITI

Sanremo non è Sanremo. Ma in compenso pare che lo Spirito Santo sia tornato di moda.

Dicono che ci sia il Festival di Sanremo. Ma perché, esiste ancora? A tutt’oggi c’è una sola opinione accettabile sul Festival, ed è quella che espresse Beppe Grillo nel 1988 sul palco dell’Ariston, quando faceva il mestiere che gli è riuscito meglio di tutti: il comico. O anche il predicatore, se volete, che pur suscitando risate diceva delle verità, anche piuttosto scomode. Fare il politico è un’altra cosa, ma in questo momento vogliamo parlare di Sanremo e di musica, della poca che c’è rimasta in quella che doveva essere esclusivamente una kermesse musicale, ma col passare degli anni ha mantenuto una dimensione da circo Barnum all’italiana, che negli intermezzi mette in evidenza tutti i difetti di questo Paese. D’altronde, cosa c’è di più nazional-popolare del Festival? Il conduttore più longevo del Festival è stato, non a caso, Pippo Baudo, uno che dal suo punto di vista aveva capito tutto ed assecondava con furbesco compiacimento lo “spettatore medio” senza esclusione di colpi. Tornando a Beppe Grillo, ci sentiamo di condividere in pieno, ancora oggi, le sue affermazioni del 1988, e non siamo affatto pentiti: “C’è un dirigente che tutte le mattine mi chiama e mi dice: “Vai e fai il colpo, il colpaccio! Sul Festival, dì quello che vuoi, trasgredisci!”. Cosa volete che dica io sul Festival, che è una cosa innocua? Trasgredire sul Festival? Il Festival…..fa schifo!!!”. Quest’anno si è vista molta minutaglia, “ospitate” senza infamia e senza lode, “big” di livello che in gara tutto sommato ancora non hanno lasciato il segno (se ancora ce l’hanno, alcuni di loro, mentre da altri aspettiamo di essere smentiti) e qualche piacevole novità fra le Nuove Proposte. Il Festival alla fine è inevitabile osservarlo, in modalità più o meno “zapping”, se non altro come argomento di conversazione.

E a proposito di “predicatori” non possiamo non citare la famiglia Anania, nostra concittadina, con ben 16 figli. La battuta è ironica e ce la perdonerete, soprattutto in confronto ai giudizi, alle offese e agli insulti che hanno subito dal popolo del web. Cose indescrivibili e indegne. Una volta, in questi casi, ci si limitava a dire, se non si era d’accordo, parole come “bigotti”, per essere cattivi al massimo, o al limite “un po’ fissati”. Invece, leggendo i commenti sui siti o sui social network, è capitato di notare una fetta di Italia che in fatto di insulti e giudizi sommari sa come toccare il fondo e non conosce ostacoli. Si sono esposti, gli Anania, con molta serenità, ma una domanda scorre in mente da due giorni: che hanno fatto di male per essere soggetti ad attacchi così spudorati?

Non è che in Italia i veri razzisti stanno diventando quelli “di larghe vedute”?

Due cose è stato facile notarle, nell’ospitata della famiglia Anania: non si parlava così tanto di Provvidenza fin dai tempi di Alessandro Manzoni e lo Spirito Santo pare che sia ritornato di moda (e non accadeva da tempo).

Ognuno è libero di fare le sue osservazioni e critiche, che siano a favore o contro, ma con un decoro che fino ad oggi – e lo abbiamo notato con evidenza – è stato spesso assente, per non dire altro.

AURELIO FULCINITI

 

Giovanni Arpino, dal miele ai calci di rigore.

Uno che non le mandava a dire. E che ha sempre rifiutato di farsi definire “intellettuale”, a pena di risposta immediata e anche piuttosto colorita, nonostante facesse lo scrittore. E un giornalista senza peli sulla lingua, pronto a dirne di tutti i colori anche dei colleghi. Un modo non proprio indicato per fare carriera, ma lui se lo poteva permettere. Nacque a Pola, in Istria, oggi terra croata, il 27 gennaio 1927, ma di residenza fu sempre torinese. E però non “di mestiere”. Sì, perché certe “appartenenze” possono essere anche un mestieraccio, e in una metropoli di cosiddetti “falsi e cortesi” era un apolide della verità, un “senza patria” in un’Italia che oggi come allora con l’ipocrisia ci va spesso a nozze.

Come scrittore, Arpino ci ha regalato fra gli altri un romanzo bellissimo: “Il buio e il miele”. Dallo stesso romanzo, per dire, è stato tratto il film “Profumo di donna”, con Vittorio Gassman, che molti hanno visto. Si dice i film non rispettino quasi mai i libri da cui sono stati tratti, e però mai come in questo caso il film è uguale al libro in tutto, finanche nelle pause e nelle virgole. Un’opera sentimentale, dolce, assai malinconica, ma anche tragica, aspra e tuttavia venata di forte ironia, con un personaggio-protagonista, il capitano Fausto, cieco e disilluso, interpretato da Gassman, che rimane impresso a tutt’oggi. Il torto, semmai, ad Arpino lo fecero gli americani, con il film del 1992, a pochi anni dalla scomparsa dello scrittore, tratto (si fa per dire) dal suo libro: “Scent of a woman-Profumo di donna”. Grande film, con Al Pacino convincente mattatore nel ruolo del tenente colonnello Frank Slade, ma non c’entra bene col libro. Diciamo al quaranta per cento, ma non è abbastanza per rendere giustizia a un romanzo così affascinante.

Nella seconda parte della sua carriera, Arpino si butta nel giornalismo. E in quello sportivo, il più inviso agli intellettuali, o pseudo tali, che in quegli anni si atteggiavano a pilastri della presunzione più che della cultura, almeno visti con gli occhi di oggi. Il perché di questa sua “inversione ad U” professionale, Arpino lo esprime in un’intervista ormai introvabile, apparsa su “L’Espresso” nel gennaio del 1980, dal titolo molto indicativo: “Li prendo a calci di rigore”. Arpino, grande cronista sportivo prima a “La Stampa” e poi a “Il Giornale”, si giustifica così: “Mi sono convinto a scrivere di sport, soprattutto pensando al lettore che potevo avere”.

Dopodichè, parte in quarta: “Quando ero all’Europeo non sapevo mai a chi mi stavo rivolgendo, mi sfuggiva il lettore. Come dialogare coi fantasmi. Avevo una rubrica chiamata “Diario parlamentare”. Insultavo gli onorevoli. Mi aspettavo denunce. Pregavo perché mi denunciassero. E invece quelli si incazzavano se non li sputtanavo. “Ma perché a me non mi insulta mai?”, mi telefonavano. Ora, che senso ha un giornalismo così? Che è quello normale. Quello che sta facendo anche lei, in questo momento. Per non dire tutte le volte che ho forzato la verità, che ho indorato la pillola, anche se bugie vere non ne ho mai scritte. I lettori di sport, invece, reagiscono subito. Uno mi ha mandato una bomba carta caricata a merda. Un altro duecento epigrammi in torinese. Carichi di insulti. Ho due bauli di letteracce e di minacce, sa che me li ha chiesti l’Università di Torino per farci una tesi su?”. Voglia di protagonismo? Deliri di un cronista alla ricerca di guai? Niente di tutto questo e niente di più falso. La sua era una sana e salutare ricerca della verità, data in pasto alla popolazione più faziosa del Paese, quella dei tifosi, disposta a passare oltre sulla politica e sui guai più seri, e però mai disposta a tollerare alcunchè quando si mette in dubbio la fede nella propria squadra di calcio.

Oggi, come ieri, un Paese di ultrà. Ma soprattutto allo stadio.

D’altronde Arpino lo sottolineava bene, nel passaggio di un altro suo bellissimo libro, “Azzurro Tenebra”, romanzo come di consueto ironico e tagliente, dedicato però alla disfatta dell’Italia ai Mondiali di calcio del 1974, pubblicato tre anni dopo ed oggi di nuovo letto ed apprezzato: “Se non avrai nemici significherà che hai sbagliato tutto”.

AURELIO FULCINITI

Eman, il reggae sensibile.

Nel dicembre scorso, la notizia di un cantante nato, cresciuto e formatosi artisticamente in questa città che ha firmato un contratto con la Sony Music, inizialmente ha stupito chi scrive e non poco. Lo stupore è scomparso, avendo capito che si trattava di Eman. Al di là del genere, il reggae interpretato in tutte le sue varianti, che può piacere o non piacere, l’artista aveva ed ha tutte le carte in regola per aspirare a un’opportunità del genere. E l’ha ottenuta, con un certo merito.

Eman, all’anagrafe Emanuele Aceto, si è avvalso soprattutto di una dote fondamentale, che – diciamolo – a molti giovani musicisti, alcuni anche piuttosto meritevoli, manca: quella di crearsi un suo pubblico, di canalizzarlo, di attrarlo e di vederlo crescere. È un pubblico tendenzialmente giovane e rivolto al suo genere di musica. Ma la cosa sorprendente, in questi ultimi anni, è stata la presenza continua di pubblico, che non diminuiva, non si fermava, ma tendeva ad aumentare. C’è stata l’occasione di assistere ad almeno otto concerti di Eman, negli ultimi anni – pochi rispetto a quelli reali – ma nelle serate “mosce” non c’erano mai meno di trecento, quattrocento persone.

La bravura, in tutti i generi, è fondamentale, ma ciò che conta è la personalità. Lui ne ha? Certamente, ma unita ad un bell’approccio con il suo pubblico e ad una forte disponibilità. Chi è vicino al suo staff ci ha riferito che è capace, senza alcun problema, di firmare centinaia di autografi senza fermarsi e soprattutto non scontenta nessuno. Dare patenti di divismo, a questi livelli diciamo così ancora “embrionali”, è senzaltro controproducente, ma avendo notato l’artista all’opera si più affermare che non cambierà natura tanto facilmente.

Un altro suo punto di forza sono i testi. Li scrive lui per sé stesso, si dice, non ha “intermediari” intesi nel senso di autori, e riesce a dargli una connotazione originale che non permette di ancorarlo ad alcun clichè e nemmeno in senso stretto al territorio, se non con grande stile. Sono testi in generale sentimentali e sensibili, ma sinceri e autentici. Un testo di Eman che “suoni falso” per ora è stato impossibile trovarlo. Dovendo proprio scegliere c’è da preferire “Giorno e notte”, “Spento”, “Via da me”, “Svegliati” e soprattutto “Anima”. Le altre valgono ugualmente.

AURELIO FULCINITI