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Il grande ritorno del Rock Auser Albi

Esiste ancora il Rock? Prima di fare avanzate ipotesi antropologiche, sociologiche, prima ancora che musicali sul genere che ha cambiato la vita di qualche generazione, sicuramente delle migliori, vale la pena soffermarsi sull’altro lato. Più che il Rock esistono ancora gli appassionati di questo baluardo musicale leggendario e imprescindibile. E poiché la vera passione non conosce ostacoli né intervalli, diciamo subito che il Rock è vivo.

Per vari motivi, anche di carattere economico e organizzativo, molti festival Rock non si organizzano più in Italia, da Nord a Sud, ma c’è chi resiste o ritorna alla grande, come è il caso del Rock Auser Albi. Dopo qualche anno di pausa, gli amici della Presila ritornano con un festival che tanti appassionati ha riunito e tanti consensi ha avuto in passato. Molte sono le band locali che hanno già aderito e ne parleremo fra poco, in maniera più approfondita, dando la parola ai nostri amici presilani, ma fra qualche mese – se non addirittura prima – si sapranno anche i nomi degli ospiti nazionali ed internazionali che aderiranno. Il Rock Auser coniuga la passione per il Rock, l’entusiasmo di un gruppo coeso di organizzatori ed un pubblico appassionato con la vitalità ulteriore dell’associazionismo, che è sempre stato vicino e fa tutt’uno. Tutte componenti essenziali, con una dedica particolare, che scopriremo nelle risposte. Ma ora via, con la parola agli amici del Rock Auser Albi…

> Come è nata l’idea di ripartire di nuovo con il Rock Auser Albi dopo qualche anno di pausa?

Già da qualche anno avevamo ricevuto tante sollecitazioni di amici e appassionati che ci chiedevano con insistenza di ritornare, la passione e la voglia erano intatte ma le difficoltà ci sembravano insormontabili. Le continue richieste del pubblico e la prematura scomparsa del nostro amico Giacomo Rossi (uno dei tre fondatori) ci hanno dato la spinta finale.

> Quest’anno il Rock Auser ha una dedica speciale?

L’amico Giacomo Rossi è stato uno degli artefici del festival, non potevamo attendere ancora, avevamo l’urgenza e il bisogno di fargli una dedica speciale, quale migliore occasione se non quella di riprendere il Rock Auser come tributo alla sua indelebile figura?

> Qual è stata la reazione del vostro pubblico affezionato e dei vari appassionati, a questa notizia?

Il pubblico ha risposto con entusiasmo e partecipazione, quando è stato ufficializzato il ritorno abbiamo ricevuto molti attestati di stima sulla pagina Facebook (nonostante fosse stata per qualche anno in standby), ma soprattutto è stato molto stimolante ricevere numerosi incoraggiamenti anche da un pubblico più tradizionale. Adesso però chiediamo a tutti gli amici e appassionati un sostegno propositivo, abbiamo bisogno della partecipazione attiva di tutti gli interessati, vogliamo che ognuno di loro si senta parte integrante del Rock Auser 2024, a breve quindi lanceremo delle iniziative di sostegno al festival, ci aspettiamo una risposta solidale che ci consenta di guardare al futuro con rinnovata fiducia.

> Che tipo di pubblico potrà avere il Rock Auser quest’anno?

Siamo ripartiti con un approccio diverso rispetto al passato, nelle prime riunioni abbiamo avuto oltre allo zoccolo duro degli appassionati più fedeli, anche una nutrita partecipazione di giovani. La cosa ci fa ben sperare, infatti siamo intenzionati a creare qualcosa di diverso, in linea con i tempi che cambiano velocemente. L’idea base è quella di creare un piccolo villaggio dove sin dal primo pomeriggio si potrà non solo ascoltare musica, ma anche assistere e partecipare ad eventi culturali e ricreativi. Ovviamente siamo ancora in fase di studio sulla fattibilità delle idee che abbiamo in mente.  Stiamo anche mettendo a punto una campagna promozionale per far conoscere il Rock Auser anche ai ragazzi che magari per motivi anagrafici non hanno mai potuto partecipare. Naturalmente il pubblico più fedele è sempre in cima ai nostri pensieri.

 > C’è la possibilità di avere qualche anticipazione sul programma?

Il Festival inteso anche come tributo, come già detto partirà nel pomeriggio con concerti di band regionali che hanno già entusiasticamente chiesto di potersi esibire; infatti, sono già sei i gruppi che hanno aderito: Black Night, Hertz, Paul Costyn & Peppe Sanzi band, Neraluce, Mantra3, Orangorock, Moondogs e Walking Trees.

Per ciascuna delle due serate stiamo poi per concludere con dei gruppi headliner, al momento manca ancora qualche dettaglio, ma ci stiamo movendo nel solco della tradizione e presto annunceremo i nomi delle due band con dei concerti in esclusiva assoluta per la Calabria.

intervista esclusiva di Aurelio Fulciniti

Raffaele Luna. Luoghi, scorci, immaginario.

A differenza di altri suoi colleghi, Raffaele Luna non ha appreso l’arte, i segreti e la magia della pittura a scuola o in ambiti accademici. La sua vocazione non nasce dall’istruzione, ma dal talento puro, per il quale è stato coinvolto nell’esercizio e sollecitato fin da bambino. Come tutti i pittori cresciuti lavorando essenzialmente sulle proprie capacità, Raffaele Luna ha intrapreso un lungo percorso di osservazione ed applicazione dello sviluppo artistico che – a suo dire – continua tuttora. Per conoscere la vera natura della sua vis pittorica aveva bisogno di una figura maestra che gli indicasse la strada, di un insegnante, di un autore che lo coinvolgesse emotivamente e del quale – parte non trascurabile – condividesse anche le doti umane in perfetta comunanza, e lo ha trovato nel Maestro Gioacchino Lamanna. Come i grandi del Rinascimento, ma con totale umiltà e rispetto, è stato “a bottega” da Lamanna e ne è seguito un cammino verso il prodursi di un’arte vivace, solare e con in più una tavolozza ricca e per certi versi inaspettata a cui Raffaele ha aggiunto nuove tonalità e altri dettagli, comuni e sorprendenti in divenire, come anche il contrario.

Come nel durevole fluire della tradizione post-impressionista, il colore per Raffaele ha un’importanza fondamentale, affiancata a quella della vivida osservazione dei luoghi. Il celeste tenue ma abbagliante, il rosso acceso e purissimo, l’arancione, il rosa, il verde chiaro e quello più marcato ma non meno caldo, il blu e un grigio inaspettatamente incisivo, si accompagnano alla naturale cura dei dettagli. E andiamo tra le foglie, i fiori, i vasi, i prati, le lenzuola e gli abiti appesi ai davanzali o stesi lungo i vicoli, che nella loro meditativa solarità costituiscono un tratto distintivo dell’opera di Raffaele Luna. E passiamo poi fra i volti, le figure umane, da quelle appena abbozzate delle opere d’insieme a quelle scarne e vissute dei ritratti, nei quali l’artista è acuto, ma che tende a mettere quasi in secondo piano, perché non gli attribuisce la congrua immediatezza e l’aderenza alla realtà degli scorci, dei paesaggi importanti nei boschi o verso il mare, o delle scene campestri.

Una visione pittorica così sensibile ed umana riesce a dare all’alternarsi dei chiaroscuri e dei giochi di luce e ombra tipici dei macchiaioli toscani una capacità di messaggio che porta il sole nei borghi e ce lo fa sentire dritto e addosso, abbagliandoci già da osservatori.

Raffaele Luna crede nell’importanza del disegno, sia come arte pura che come punto basilare della pittura, inizio singolo eppur essenziale di quell’itinerario che porta all’opera terminata e la dona alla visione.

Pur nello stretto realismo, possiamo dire che le opere di Raffaele Luna portano ad una contrastante e gradevole “Metafisica di vicinanza”. Nelle sue opere vediamo i luoghi, ci vengono familiari, ma non li riconosciamo, perché lui con reale alchimia li trasporta in un diverso campo temporale e li tramuta, rendendoceli non solo più concreti e nello stesso modo indefiniti, ma soprattutto più eterei nel tempo e nello spazio. Sta a noi capire dove siamo, dove ci troviamo e che ricordi possiamo avere, immaginando realtà vicine con l’apporto decisivo di uno sguardo privilegiato, quello del pittore.

  • Testo di Aurelio Fulciniti

“Il Piccolissimo”, periodico d’avanguardia

Parlare de “Il Piccolissimo” vuol dire citare – per chi ha avuto l’onore di collaborarvi, come nel caso di chi scrive – un’impeccabile e irripetibile scuola di giornalismo, con tre maestri d’eccezione, di tre estrazioni politiche diverse, ma uniti da un temperamento forte e battagliero, ma soprattutto da un elevato tasso di professionismo e di terzietà.

Doti che oggi sembrano in molti casi perse per strada, soprattutto in Calabria, tranne alcune rare eccezioni che confermano la regola e sono da riconoscere, in alcuni casi, per formazione professionale, proprio al “Piccolissimo”.

Questo periodico ha avuto due fasi della propria esistenza: una più lunga e proficua negli anni 80 e una più breve fra il 2005 e il 2006. Ma più che sui contenuti e le vicende del giornale ad essi intrecciate, è necessario inizialmente soffermarsi sui “padri fondatori”, vale a dire, in ordine alfabetico, per rendere omaggio alla memoria, Moisè Asta, Venturino Coppoletti e Vincenzo De Virgilio, per tutti Enzo, da poco scomparso. Accomunati da un raro acume professionale e da un’imparzialità che mettevano in ogni riga, erano molto severi ma perché da loro c’era da imparare, eccome. E se da loro arrivava una lode che riguardava l’impostazione o la capacità giornalistica, chi la riceveva si poteva considerare di sicuro “promosso” e invitato a proseguire su quella strada. Di un’onestà intellettuale adamantina, di una cultura profonda, di una tecnica professionale senza pari e soprattutto di una calabresità rigorosa sia nel capire che nel denunciare, in perfetto stile del giornalismo d’inchiesta, questi tre fuoriclasse hanno colmato una lacuna e costruito un’alternativa. In anni nei quali l’unico quotidiano realmente letto era “La Gazzetta del Sud”, calabrese ma in realtà siciliano, obiettivamente di parte perché fin troppo neutro e democristiano, poco incline alle opinioni oltre un certo margine e al giornalismo d’inchiesta, con redazioni rigide, gerarchiche ed inaccessibili dall’esterno, Asta, Coppoletti e De Virgilio, offrirono un approccio empatico che era l’esatto contrario in tutto. Il pluralismo era alla base di un periodico in cui le notizie erano presentate seguendo diverse strade e differenti punti di vista, per niente paludati, ma anzi nettamente inclini alle discussioni e alle riflessioni da parte del lettore.

Fra le rubriche è rimasta celebre, per i lettori de “Il Piccolissimo”, “La colonna di Zeno”, mai firmata in apparenza, ma in realtà tutta scritta e farina del sacco di Enzo De Virgilio, con sagacia e ironia, ma soprattutto incline a far notare i fatti e i personaggi da un punto di vista sulfureo e graffiante – ovviamente dal punto di vista dialettico e linguistico – ma certamente più attinente alla realtà. Un’autentica rivelazione per quegli anni, ed anche per quelli a venire.

Oggi “Il Piccolissimo” sarebbe un progetto difficile da realizzare e non solo perché mancano i tre fuoriclasse in grado di fare scuola e guidare con mano sicura i giovani, ma soprattutto perché almeno in Calabria si va spesso verso un giornalismo meno rigoroso, con meno preparazione ed attenzione alle fonti, ma soprattutto con un discutibile concetto di imparzialità e una crescente vocazione per lo scandalismo e il sensazionalismo che lascia colpevolmente in secondo piano la qualità di fatti ed opinioni.

Per tornare a collegare il giornalismo attuale con una certa tradizione innovativa ormai dimenticata, la cosa più importante da fare sarebbe davvero far conoscere ed illustrare alle nuove generazioni del settore tutti i numeri del “Piccolissimo” e testimoniarne la tecnica, le impostazioni e la capacità di approccio all’argomento. Questo servirebbe a capire che la Calabria giornalistica ha vissuto tempi migliori, per poi riflettere con attenzione sul fatto che è un paradosso dover ammettere che nell’era del pluralismo più ampio e possibile dell’informazione, se ne sia invece persa in gran parte l’essenza. È il “corpus” di una riflessione importante, che potrebbe anche rivelarsi utile.  

Aurelio Fulciniti

Alfredo Pino, passionale ed in continua evoluzione.

Oltre ad essere un artista profondamente eclettico e poliedrico, Alfredo Pino ha una concezione didattica a tutto tondo dell’arte, sia nell’apprendere che nell’insegnare. Da allievo ha tratto linfa dai suoi maestri, ma ha anche indagato a fondo l’espressione del magister, trasferendola su di sé. E da insegnante si rivede nei suoi allievi, trasmettendo loro ciò che ha appreso con la personalità di chi gli ha fatto da maestro, anzi, con le molteplici personalità da lui conosciute e frequentate.

Pittore e scultore di ampia e singolare abilità tecnica, è anche – se ci permette di precisarlo, e siamo sicuri di sì – uno scrittore molto promettente, capace di esprimere con vivacità ciò che racconta, con una predilezione autentica per la Storia dell’Arte, ma decisamente meno per la critica e chi la fa.

Gli artisti fanno la Storia, mentre i critici possono dare opinioni che influiscono sul mercato dell’arte, ma non potranno mai cogliere a pieno la personalità di un artista, a rischio di cadere nella fumosità e se vogliamo anche nella banalità, che li porta inevitabilmente ad essere contraddetti e smentiti.

Alfredo Pino non usa giri di parole né scorciatoie nel raccontare e nel raccontarsi, e qui risiede in particolare il grande interesse che suscitano la sua opera e la sua persona.

L’artista oggi risiede a Castiglione Olona, non lontano dal Lago Maggiore, borgo medievale perfettamente conservato e con al suo interno un capolavoro assoluto, custodito nel Battistero della Collegiata dei Santi Stefano e Lorenzo, vale a dire le “Storie del San Giovanni Battista” affrescate dal maestro Masolino da Panicale nel 1435. Un luogo che sicuramente ha ammaliato subito l’artista Alfredo Pino, in cui la prospettiva e l’influenza del Brunelleschi si compenetrano in una visione complessiva che riguarda sia la struttura pittorica dell’opera che quella architettonica del Battistero. E l’arte di Alfredo Pino vive proprio nella complementarità fra stili e un notevole senso architettonico spesso basilare.

Le sue opinioni sono molto esplicite, sul disincanto e – a giudicare dal parere espresso – sul disamore che lo collegano alla terra natia. È come se al degrado in cui sono lasciati luoghi che meriterebbero maggiore attenzione, al disimpegno culturale e alla poca attenzione che ritiene di aver ricevuto negli anni, egli abbia optato in maniera sommaria per la fuga. Un’azione realmente e dialetticamente estrema, che lascia spiazzati, ma che appare in piena linea con un artista spigoloso, ma praticamente da sempre in fuga verso altri mondi, fin da quando – e cioè non molto tempo fa – viveva ed operava nella terra natia. Il lungo viaggio che ha vissuto e continua a percorrere lungo i sentieri dell’Arte e delle sue espressioni lo rende un intellettuale inafferrabile, ma ci dà una continua, costante curiosità di capire le sue intenzioni, di attingere alle sue nuove visioni e di vedere e conoscere le sue creazioni venture, ma soprattutto di apprendere quali saranno i nuovi spazi creativi in cui guiderà la sua straordinaria vivacità artistica ed intellettuale, nella perenne smania di espandersi e perciò non inquadrabile in uno schema preciso, poiché lontana da tutti quelli banalmente conosciuti.

Ma adesso è il momento di conoscere meglio Alfredo Pino, e di procedere quindi con le domande.

– Come nasce l’artista Alfredo Pino e da dove è scaturita la tua passione totalizzante per l’arte?

“Dopo gli studi classici e una breve parentesi universitaria, la frequentazione con il Maestro Giovanni Marziano mi fece appassionare alla pittura e al mondo dell’arte in genere. Devo molto all’amico Giovanni, il quale, oltre all’insegnamento della tecnica della pittura ad olio, mi fece capire soprattutto il senso del mestiere di pittore, fatto di costante impegno nella ricerca non solo estetica ma soprattutto stilistica e concettuale dell’arte. Non basta dipingere un “quadro bello” perché si possa definire un “bel quadro”. L’estetica non è la sola componente nella creazione di un’opera artisticamente valida, che necessita di soluzioni stilistiche soggettive, tecniche e contenutistiche che consolidino un’identità esclusiva dell’artista, rendendolo identificabile per stile e sensibilità, per emozioni e unicità. Il raggiungimento della propria identità stilistica è l’obiettivo primario in un artista, che gli consente di esprimersi con un proprio nuovo linguaggio, capace di suscitare emozioni nel fruitore dell’opera, di toccare corde personali nell’osservatore, che lo inducono a riflessioni nuove, stupore, curiosità, vibrazione.

La conoscenza e la successiva profonda amicizia col Maestro affreschista Giorgio Michetti, a Milano, mi avvicinarono alla tecnica dell’affresco e della pittura murale. Con lui avvenne la svolta professionale del mio lavoro, avendomi dato la possibilità di frequentare collezionisti e galleristi milanesi e del nord Italia, che diedero un significativo apporto al mio lavoro, inserendomi in canali espositivi e culturali di livello. Al compianto Giorgio Michetti, morto nel 2019 all’età di 107 anni, devo molto della mia carriera d’artista, sia sotto il profilo tecnico, insegnandomi l’affresco da cavalletto, che professionale, per l’inserimento in canali di mercato, altrimenti per me molto difficili da raggiungere.

In seguito, la poliedrica artista catanzarese Luigia Muleo, purtroppo prematuramente scomparsa, cantante e scultrice, mi avvicinò alla tecnica della terracotta e della scultura in vetroresina, che rappresentano oggi un importante settore della mia attività artistica”.

– Sei nato in una famiglia dove l’arte era di casa?

“Provengo da una famiglia colta, preside mia madre, impiegato regionale mio padre, entrambi mi hanno educato alla sensibilità per l’arte, prevalentemente per la musica. Ho infatti frequentato il Conservatorio Musicale in chitarra classica e mia sorella è pianista. In casa mia si respirava lo studio dell’arte pur non essendo i miei genitori artisti. Da bambino visitavo con loro mostre, musei, chiese, concerti classici, nei numerosi viaggi in giro per l’Italia”.

– Sei senza dubbio un artista eclettico e poliedrico, ma fra pittura, scultura e decorazione, attribuisci a queste tre arti una scala di importanza?

“Non attribuisco nessuna scala d’importanza tra pittura, scultura, decorazione. Tutte convergono nell’espressione creativa della mia attività. Sono tecniche diverse, che unitamente rappresentano un mio percorso artistico, fatto di momenti di vita, di esperienze diverse, di scrittura di pagine di esistenza. La mia attività artistica ripercorre inevitabilmente la mia vita, fatta d’incontri e suggestioni, di frammenti di memoria che riemergono nella mia opera, nella fluidità del tempo, nell’intimo racconto degli imprevisti e dei momenti felici che la vita presenta, dei decolli e delle cadute. La mia arte non vuole essere rappresentazione letteraria o iconografica di questi momenti, ma forma e colore delle mie intime emozioni”.

– Di tutti gli anni che hai vissuto in Calabria, cosa ti porti dietro?

“Sono nato a Catanzaro, da padre siciliano e madre catanzarese, quindi anagraficamente sono calabrese. Devo però ammettere che, forse per la mia costante propensione a viaggiare e vedere posti nuovi, notando la differenza con la mia città, sono portato ad essere critico e inevitabilmente severo con la mia terra, oltraggiata e ferita dalla noncuranza della maggioranza dei suoi abitanti, che, nonostante l’oggettiva evidenza, non riescono ad ammettere il decadimento socio-ambientale che li circonda. Purtroppo l’abitudine al degrado lo rende invisibile. Sono legato affettivamente ai miei amici catanzaresi, per la gran parte di vita trascorsa insieme, ma non riesco ad essere legato alla mia città proprio a causa del provincialismo campanilistico che connota molti dei suoi abitanti.

Ritengo che in Calabria ci siano molteplici menti superiori alla media, sia in campo artistico e culturale che in altri ambiti, purtroppo soffocate dall’isolamento logistico e dalle poche opportunità di confronto libero e meritocratico. Questo credo sia il peggiore ostacolo al giusto riconoscimento del talento, che inevitabilmente deve emigrare per potersi realizzare”.

– Da alcuni anni vivi a Castiglione Olona, splendido borgo in provincia di Varese. Com’è nata l’idea di trasferirti lì, e perché?

“Ora vivo a Castiglione Olona, in provincia di Varese, al confine con la Svizzera. Un antico borgo medievale immerso nel verde, sulle Prealpi, vicino al lago di Varese. È stato amore a prima vista, durante uno dei tanti viaggi alla scoperta di borghi d’arte che con mia moglie facciamo da sempre. È stata una scelta felice anche per avvicinarmi ai miei figli che vivono da molti anni in Lombardia. Essendo a pochi minuti di macchina da importanti città, la vita scorre rapida e piena di nuovi stimoli. Io sono amante della natura, dei parchi, dei prati, dei laghi e dei monumenti storici antichi, qui ho dunque trovato il mio habitat perfetto.

A Castiglione Olona ho aperto una scuola di terracotta, per avvicinare, chiunque lo desideri, a questa tecnica, che definirei magica, per l’intrinseca facoltà di rilassamento offerta nel plasmare la creta, che non lascia traccia d’errore nella realizzazione dei manufatti, quindi psicologicamente libera da paure e tensione nel misurarsi nella creazione di oggetti e sculture. Cerco di offrire agli allievi soprattutto una competenza tecnica, convinto che la creatività possa esprimersi pienamente solo se non incontra ostacoli di mano incerta. Se poi uno ha potenzialità artistiche si vedrà coi prodotti che andrà creando. Credo che non si nasca artisti, piuttosto si nasce con la curiosità della conoscenza, che coltivata e stimolata, porti a diventarlo”.

– Oltre ad essere un bravissimo artista – permettimi se te lo dico – sai scrivere e descrivere molto bene. Federico Zeri a suo tempo ha scritto che “gli intellettuali tendono a parlare in modo oscuro per catturare con la paura coloro che non li capiscono”. Oggi chiedo a te: è ancora così?

“Sono d’accordo con Federico Zeri sulla tendenza di alcuni intellettuali a usare l’incomprensibilità per avvalorare discorsi sull’arte, non ho infatti mai gradito la figura del critico d’arte, più volte, infatti, smentita dalla storia. Gli artisti anticipano i tempi, i critici loro contemporanei non sempre stanno al passo. Preferisco la figura dello storico, che analizza l’arte in rapporto all’epoca di appartenenza, fornendo spiegazioni socio-antropologiche e ambientali del periodo e della sua evoluzione rispetto al suo tempo. Diverso è il peso di mercato che il critico può dare ad un artista, ma con l’arte c’entra poco”.

– Perché non ti sei mai dedicato a qualche opera di divulgazione, in questo senso?

“Un giorno forse scriverò qualcosa sulla mia idea di arte, per adesso impiego tutto il mio tempo e le mie energie nel cercare di farla”.

Aurelio Fulciniti

Umberto Falvo, senza compromessi

Nell’iniziare a descrivere Umberto Falvo (Catanzaro, 7 settembre 1955), si può affermare tranquillamente, senza tema di smentite, che il suo rapporto con l’Arte, passionale e continuo, è una linea tesa all’infinito che non conoscerà mai confini. Pittore, ma anche scenografo, grafico, illustratore e persino poeta, è artista nell’accezione cognitiva più ampia del termine. Ma la sua maggiore peculiarità sta nel non aver mai accettato compromessi. Al farsi conoscere, preferisce da sempre l’essere riconosciuto. Il suo è per così dire un narcisismo positivo, perché nel mondo dell’arte gli ha permesso di chiudere varie porte e di non aprirne proprio alcune altre, e di entrare solo laddove i suoi reali meriti potevano venire fuori. In un mondo dell’arte dove il mercantilismo è sempre più sfrenato e un pittore deve pagare spesso di tasca propria luoghi in cui esporre, galleristi e critici accreditati per ottenere un riconoscimento sia nominale come identità artistica che nominativo in senso stretto, quando non addirittura di effettivo merito, Umberto Falvo ha deciso di non sottostare, di non pagare prezzi reali o morali, ma di essere riconosciuto a tutti i costi – e non senza sforzo – per ciò che vale. E si può dire – ascoltando il suo racconto – che da parte sua c’è riuscito, e non ha intenzione di fermarsi.

Per riuscirci, non ha esitato a confrontarsi con le personalità più titaniche ed ingombranti, sia artisticamente che intellettualmente, entrando in luoghi poco frequentati e stando sulle sedie più scomode, ma senza sentirsi su un piedistallo. Anzi, il contrario, perché per lui ergersi equivale a non uscire dal provincialismo e dalla finta gloria.

Non omette nulla nel raccontarsi, nessun nome o episodio controverso, ma narra tutto il suo vissuto, ogni passaggio, ogni tappa importante di un percorso che lui definisce assolutamente libero e che è destinato a durare finché dureranno l’uomo e l’artista. Ma è anche generoso nel parlare delle personalità culturali che ha conosciuto bene, con cui ha lavorato e dalle quali ha avuto sostegno. Conosce la gratitudine, Umberto, e ci tiene ad esternarla.

Come artista difende in maniera netta, trinciante in alcuni passaggi, ma in sostanza del tutto coerente, la sua posizione artistica di avanguardia e di totale rottura delle tradizioni, mettendo in secondo piano, se non ancora più indietro, la tecnica pittorica, da lui ritenuta sorpassata, quando non addirittura nociva per la maturazione e la crescita dell’artista moderno.

Sempre dalla porta più stretta promette di passare, Umberto Falvo, ma con lo stesso spirito col quale ha iniziato e senza mai pensare di fermarsi, ma ripartendo ogni volta dall’ultimo traguardo raggiunto come se fosse il primo.

Partiamo da molto tempo fa e cioè da quando tu, giovane studente dell’Accademia di Belle Arti, eccellevi nel figurativo e Carmine Di Ruggiero, il direttore di allora, ti suggerì: “Devi guardare avanti”. Oggi cosa vedi nel seguito di questa esortazione che ha inciso fortemente nella tua carriera?

“Il tempo è una dimensione a me sconosciuta. Mi è capitato di scrivere qualcosa sul tempo, perché mi ero interrogato “sul mio tempo” e ho scritto questo: “Di un tempo senza tempo è la mia storia”. Perché se devo dare al tempo il valore degli anni che sono passati, devo dire “oggi sei anziano” e cioè diversamente giovane, ma il mio tempo non ha tempo. Quando ero studente all’Accademia di belle Arti a Catanzaro, frequentavo il corso di pittura e dividevo la postazione di lavoro, una stanza non tanto grande, con il mio amico Gabriele Bianco: eravamo stati compagni di Liceo e poi all’Accademia, per tanti anni trascorsi insieme, e quindi molto amici. Al termine del primo anno accademico Di Ruggero, all’esame finale, mi diede un voto molto soddisfacente e mi disse: “Devi pensare che i tempi del liceo sono finiti. Devi cambiare il modo di fare pittura e lasciare stare quello che sai fare perché ormai lo fai bene. Ci siamo capiti?”. Intanto mi ero iscritto alla Scuola Libera del Nudo tenuta dal Prof. Tony Pileggi, grande artista e amico di mio padre, il quale insisteva sempre: “Vai dal professore Pileggi e impara”. In verità ho fatto tutte e due le cose, perché ho cambiato il mio modo di dipingere e nello stesso tempo imparavo e “rubavo” le tecniche pittoriche. E così, all’esame finale del secondo anno il Di Ruggero mi diede un voto più alto dell’anno precedente, ma aggiunse molto chiaramente: “Hai le capacità di essere un bravo studente, ma non ti fissare solo su quello che sai fare, perché devi cambiare”. Effettivamente io ero già cambiato, perché la mia pittura e i miei studi si erano rivolti alla pittura metafisica ed esoterica, a Nicolas Poussin, Giorgio De Chirico, al fratello Alberto Savinio, ad Arnold Bocklin, Johann Heinrich Fussli, William Blake, Odilon Redon, Max Klinger, pittori visionari e metafisici che insieme a poeti e filosofi hanno scoperto l’inconscio prima che Freud ne decifrasse un metodo scientifico di introspezione, per poi passare a Carrà, Morandi, De Pisis, Chagall e Mirò. Era però una pittura figurativa, descrittiva, ma questo ancora non bastava e non si conformava al pensiero del Maestro Di Ruggero, che all’esame finale del terzo anno accademico mi diede un voto per me incomprensibile: “18”. La mia non era delusione, ma rabbia, tanta rabbia, perché nei due anni precedenti i miei voti erano in linea con i migliori studenti e adesso al terzo anno arrivava una valutazione molto discutibile, una delusione grande. Mi rendevo conto che non facevo parte del cerchio magico che si era creato intorno alla sua persona, con studenti e studentesse a lui molto vicini nelle frequentazioni, che erano sempre presenti a tutti gli eventi, mentre io non c’ero. Naturalmente chiesi un chiarimento e fu in quell’incontro difficile, ma davvero chiarificatore, che mi disse: “Devi guardare avanti, devi cambiare. Ti avevo detto che questa pittura è passata, non è al passo con i tempi. Devi distruggere la figura, devi guardare avanti, oltre”.  Non era l’unico che mi esortava a cambiare, a guardare avanti, e allora capii, con parole mie, che “L’Arte, l’arte vera è una forma di sacralità che è cambiata. È sofferenza e ricerca. È disciplina e lavoro interiore, che ti macina dentro”. Tutto questo ha motivato la mia pittura e la mia ricerca. Il Maestro Di Ruggero non è stato una guida, ma uno che mi ha aperto gli occhi. Altri poi sono stati gli artefici del mio vero cambiamento, e non parlerei di carriera, bensì di un percorso”.

Quanto è importante per te la tecnica e come ha influito e tracciato il tuo percorso artistico?

Mi è difficile veramente parlare di tecnica, perché è una cosa che si acquisisce, la si trasmette agli studenti, e c’è il rischio reale che ogni allievo alla fine dipinga come il suo maestro. Ci sono scuole di pittura dove i maestri insegnano la propria tecnica, che rende gli allievi tutti uguali, bravi forse, ma uguali, perché se riproducono una natura morta, lo è davvero, proprio morta, perché non c’è anima nell’opera, ma solo tecnica. La pittura iperrealista, che riproduce i particolari quasi come la fotografia, era importante in America negli anni Cinquanta del secolo scorso, ma poi piano piano è progressivamente scemata. Nell’arte è cambiato tutto e solo i pochi che vivono di arte, riproducendo quello che vedono – e cioè figure, paesaggi, marine, montagne, nature morte, fiori, vicoli, case e quant’altro – si accontentano di un mercato povero.

Ricordo che eri restio a vendere delle tue opere, perché ti sembrava inopportuno darle a chi non provava le tue stesse emozioni ed avevi rifiutato anche delle offerte allettanti. Sei sempre dello stesso parere?

È vero, non ho cambiato parere e non vivo nell’oro, ma questo non mi induce a svendere il mio lavoro. Chi compra una mia opera deve essere in linea con il mio pensiero.

La tua arte, come hai ammesso più volte, è strettamente legata alla Metafisica di Giorgio De Chirico e Alberto Savinio ed all’Action Painting di Jackson Pollock. Quanto, il credo di questi grandi artisti è entrato concretamente nella tua formazione e nello sviluppo successivo?

È vero anche questo: la mostra di tanti anni fa dal titolo “Dal pensiero metafisico alla metafisica del pensiero. Idee per una pittura informale”fu il frutto di giorni e notti passate insieme al grande Francesco Grisi, intellettuale illuminato, Segretario Generale del Sindacato Liberi Scrittori che poi era una sua creatura, oltre a Sergio Paolo Foresta, scrittore, poeta e uomo di grande cultura, allora Presidente Regionale del Sindacato Libero Scrittori, e al caro professore Cesare Mulè. Sono tutte figure che mi mancano tanto, ma non mi dimentico di tanti altri cari amici che mi hanno onorato e mi onorano ancora della loro amicizia. Con quest’interazione si è realizzata la mostra che ha segnato il passaggio definitivo che ha contraddistinto la mia pittura, dalla metafisica dechirichiana alla pittura informale. Io credo fermamente che l’artista debba rimanere fedele alla sua ispirazione e quindi tradurla in forma. Ti dico che importa meno l’effetto di meraviglia, d’incanto o di respingimento che può suscitare in chi legge l’opera, se l’artista se non è compromesso e non si lascia mercanteggiare, ed è libero nell’andare avanti per la sua strada, trasformando in gestualità un pensiero che prima aveva forma e immagine.

Anni fa hai detto che “il colore è un pigmento chiuso nella lampada di Aladino: aspetta di uscire per dare il meglio di sé stesso”. Puoi spiegare nel dettaglio e nell’essenza questa metafora?

Il colore è magia, ed è contenuto in tubetti, vasetti, bottigliette, ed è lì che aspetta che qualcuno lo faccia uscire, che lo liberi, come il genio della lampada costretto a stare chiuso, ma poi qualcuno lo fa uscire da questo stato, lo mischia con altro colore e da due colori ne nasce un terzo e un quarto diverso dai primi due e dall’altro: questa è l’alchimia, che si trasmuta a seconda di chi regola il procedimento. È il colore che vuole diventare altro, cambiare da chiaro a scuro, da giallo e rosso in arancione, da blu e giallo a verde ed a colori più chiari o più scuri, più densi o meno densi, ma che hanno bisogno di dare compimento all’opera del tuo pensiero, alla trasformazione del colore per meglio compiere e rendere davvero “un’Opera” il tuo lavoro, Ti ho parlato tempo fa dei miei cerchi di colore, ricavati dalla sedimentazione degli smalti. Li ho scoperti aprendo i barattoli di colori, quando notavo che lo strato superiore si era solidificato ed era duro, e quindi per poter utilizzare il colore sottostante dovevo rimuoverlo. Una sera, compiendo quest’operazione, mi venne naturale di reimpiegare il colore che prima era fluido e poi con il tempo solido, ed ho pensato di ridare a quel colore la stessa dignità che aveva prima, e da allora li ho sempre inseriti nelle mie opere. Quel cerchio è l’emblema della Vita e della Morte, in una circolarità che è la disposizione, “ab ovo”, degli esseri umani.

Nelle tue opere c’è sempre un messaggio o una chiave di lettura importante. Come parte in te la genesi del messaggio e quanto è importante l’intensità della sua forza?

Un lavoro non è mai banale, perché è frutto di una idea, di un pensiero iniziale, di un concetto, che poi naturalmente può cambiare nel corso della sua evoluzione e necessariamente ha bisogno di una struttura in cui la chiave di lettura sta nell’equilibrio che si vuole dare all’opera, perché l’osservatore deve avere una visione completa e poi piano piano affrontare un viaggio tra i colori e le forme che la compongono. È questa la forza, l’equilibrio, il bilanciamento, la realizzazione del pensiero iniziale.

Nella tua carriera hai incontrato grandi artisti, senza dubbio. Quali sono stati gli incontri più importanti, quelli che ricordi meglio e che per te hanno contato di più?

Sono stato un uomo fortunato, perché da giovane ho avuto la fortuna di conoscere tanti artisti, tanti uomini e donne che hanno generato arte in diversi campi e competenze e comunque sempre persone di grande cultura. Fin dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso sono stato introdotto in salotti culturali di una certa importanza e di rilievo formativo notevole a Roma, Firenze, Torino, Milano e tante altre città, ma non mi va di fare i nomi di tanti che oggi non ci sono più, e di tanti altri non li ricordo nemmeno. Ho però vivo il ricordo del fuoco istruttivo, artistico e creativo che mi trasmettevano.

La tua opera esposta a Roma, dedicata alla lotta per la libertà delle donne in Iran ha avuto grande successo nell’esposizione “Women life freedom”. Puoi raccontare come è andata?

A Roma la mostra “Women Life Freedom” è stata un successo, è l’idea iniziale è stata dell’attrice Marisa Laurito che da anni è vicina a chi è succube in un mondo di violenze e maltrattamenti. La gallerista e critica d’arte Sabina Fattibene, che mi conosce artisticamente da molti anni, mi ha voluto onorare invitandomi a questo evento. È stato un successo di pubblico e di riconoscimenti. Una serata speciale, un grande evento che ha dato visibilità al dramma delle donne iraniane, un percorso che non si ferma ma continua con altri importanti momenti di condivisione.

Quanto è importante la libertà, sia personale che artistica?

La libertà è una parola, ma per me è un modo di essere e di esprimermi. La libertà è non avere padroni, mercanti, imposizioni, galleristi che ti pagano per farti produrre opere scadenti e sempre in maggiore quantità, che ti dicono di lavorare a contratto, tante opere tanti soldi. Molti che riescono ad avere un contratto di questo tipo si dicono fortunati, e li capisco pure. Una cara persona mi ha detto “io devo pure vivere, e ho bisogno”. Ecco, questa è la fortuna di essere liberi e indipendenti, che ti permette essere artisticamente libero e di non avere compromessi.

L’impegno civile quanto conta nell’arte e quanto può incidere?

L’arte ha sempre contribuito a rivoluzioni, storiche, artistiche e culturali. Quello che non si poteva dire è stato dipinto, scritto in versi, scolpito sui muri. Le guerre sono state fatte dagli artisti sotto tutti gli aspetti, ed innumerevoli sono gli esempi di uomini e donne morte per un ideale. Sono certo che l’Arte vera, quella con la A maiuscola, contribuisce anche oggi a fare la differenza per il bene dell’umanità.

L’Accademia italiana di Arte e Letteratura ti ha nominato fra i suoi membri e il tuo ingresso è stato ufficiale il 12 maggio scorso. Come accogli questo riconoscimento?

Il 12 maggio 2023 è stato un giorno importante, perché sono stato chiamato e riconosciuto con altri artisti a far parte di un’Accademia, in questo caso dell’Accademia Italiana di Arte e Letteratura, e del Movimento Artistico degli Effettisti, e di ciò mi sento molto onorato. Sono già membro di altre Accademie e Istituzioni ma ogni riconoscimento ha il suo fascino, e farne parte è motivo di orgoglio non solo per me ma anche per chi in me in questi anni ha creduto.

Dei riconoscimenti ricevuti in passato, quali sono quelli a cui sei più legato?

Ogni riconoscimento è un momento particolare della propria vita. Non c’è né uno più importante, ma sono ricordi che ti restano dentro, indelebili uno per uno e per sempre.

La tua arte guarda al futuro, come anche la tua persona. Cosa vedi da qui in avanti? Se avrò la fortuna di vivere ancora a lungo, e avrò la forza di lavorare per creare altre opere, farò quello che so fare. Altro non so, perché per vedere avanti dovrei avere il dono dell’onniscienza.

Non meno importante di quella di pittore, è stata la tua attività di scenografo. Hai iniziato con il Centro d’Arte Drammatica di Catanzaro con Gianni Diotajuti. Ci parli del Centro, per chi non lo ha conosciuto, e della tua attività di scenografo?

A metà degli anni Settanta Cesare Mulè e altri, fra cui Antonio Panzarella pensarono di fondare un Teatro Scuola a Catanzaro. Nacque come scuola di dizione e poi divenne Teatro Scuola. A dirigerlo chiamarono Gianni Diotajuti, che ha “fatto parlare” cantanti poi divenuti celebri e soubrette televisive importanti, oltre a tanti altri attori di cinema e di teatro. Iniziata l’attività, ogni fine anno bisognava fare un saggio. All’inizio erano spettacoli non difficili da realizzare e si potevano tenere al Teatro del Minorile, ma con il crescere del numero degli allievi si affrontarono spettacoli più impegnativi, con opere di Eliot, Albee, Patroni Griffi, Ionesco, Brecht, Shakespeare, Goldoni, Shaw, Garcia Lorca e Pirandello, tanto per citare gli autori più importanti. Fra gli allievi più noti cito Adele Fulciniti, Diego Verdegiglio e Sara Tafuri. Sono diventato lo scenografo ufficiale e l’esperienza è durata tanti anni. Abbiamo fatto spettacoli anche in location meravigliose come la Basilica della Roccelletta. Ho fatto talmente tante cose in quel periodo che neanche me le ricordo tutte.

Da scenografo hai curato anche due prime nazionali ed hai conosciuto pure Franco Zeffirelli. Ce ne parli?

Ho fatto le matinee per le scuole con Adele Fulciniti e ho realizzato spettacoli come “Piccole Donne”. Ma un altro lavoro importante che ho fatto con lei è stato lo spettacolo giapponese “Yuzuru”, ovvero “La gru della sera”, di Kinoshita Junji, rappresentato al Minorile e poi in Prima nazionale assoluta al Teatro “La Scaletta” di Roma. “Piccole Donne” fu realizzato apposta per Franco Zeffirelli, ma lui prima di venire a Catanzaro volle vedere i bozzetti di scena e tutto il resto. Andammo tante volte a trovarlo per illustrargli tutto e lui alla fine dello spettacolo mi chiamò sul palcoscenico per farmi i complimenti. Lo spettacolo era su due livelli e Zeffirelli pensava che il Masciari fosse un teatro attrezzato con macchine di scena e macchinisti. E quindi rimase molto sorpreso quando capi che da un livello all’altro era collegato da uno “sgabellone” dal quale un omone prendeva le attrici e le faceva salire e scendere tipo ascensore. “Solo il genio di un calabrese poteva inventarsi una cosa del genere”, mi disse. Ed autografò per me il bozzetto dello “sgabellone”.

Tornando infine alla pittura, mi sa che dobbiamo concludere parlando di un evento molto importante, e cioè della donazione di una tua opera al Parlamento dello Stato di San Paolo, in Brasile. Ci puoi raccontare com’è andata?

Si organizzavano le selezioni calabresi per la Biennale di Roma, che io ho vinto almeno cinque o sei volte, non mi ricordo più quante. Fra queste edizioni c’è stata quella con il gemellaggio Italia-Brasile con la mia opera “Esplosione” esposta alla galleria “Spazio Surreale” di San Paolo del Brasile. Il tutto grazie a Livia Bucci, perché i vincitori non pagavano per esporre. Emanuel von Lauenstein Massarani, Soprintendente del Patrimonio Culturale dell’Assemblea dello Stato di San Paolo, se ne innamorò, ma voleva solo una parte dell’opera, perché tutta era troppo grande. “Non la posso certo tagliare”, dissi io. “La facciamo ridurre noi serigraficamente, perché Massarani ci tiene in maniera particolare”, mi fu risposto. La qualità la scelgono gli altri, e questa nell’arte è una grande verità.

Aurelio Fulciniti

Nella foto, Umberto Falvo, “Caos cosmico – Equinozio di primavera”

Giovanni Marziano, l’artista e la persona.

L’aspetto determinante della sua vita è stata la passione totalizzante per l’arte. E mancando lui, ci mancherà un universo. Nella sua opera tutto è diventato vivo, tutto è dentro di noi. La nobiltà dei luoghi, dei volti e delle cose si è trasformata in realtà tangibile, più di quanto lo fosse vivendola distrattamente e con gli occhi diversi dai suoi.

Esperto indiscusso di Mattia Preti e del Seicento napoletano, è stato amico di artisti come Renzo Vespignani, Salvatore Fiume e anche Mimmo Rotella, che hanno speso parole di sincera ammirazione per di lui.

Ha insegnato per decenni e fino all’ultimo ha curato la sua scuola di pittura, con i suoi allievi che ha sempre seguito con rispetto e passione, le stesse che loro hanno utilizzato nel rapporto con lui.

Le sue opere hanno rappresentato la Calabria e la sua arte è sempre attenta ai dettagli, minuziosa, rigorosa e con un costante amore unito alla ricerca del bello che lo ha reso importante per tutti noi. Apparteneva alla scuola dei pittori che sono stati anche maestri di vita.

L’insegnamento scolastico per lui è proseguito in quello di “bottega”. Era e sarà sempre un uomo del Rinascimento, con uno sguardo nei ricordi e l’altro aperto verso il futuro.

L’ho ascoltato tante volte e spesso mi ha parlato dei suoi colleghi artisti, ma sempre con grande affetto e mai con il minimo segnale di insofferenza, di critica o addirittura di invidia.

Ogni sua osservazione era costruttiva, importante ed immersa spesso e volentieri in una lanterna magica di ricordi, che da lontana che poteva sembrare diventava sempre più attuale nel fluire delle parole. L’ho ringraziato di avermi dedicato il suo tempo e lo ringrazierò per sempre, perché un artista è immortale quando le sue opere sono eterne esattamente come la sua persona.

E i tantissimi che lo hanno conosciuto hanno vissuto con lui aperto al dialogo, alla compagnia, alla reciproca soddisfazione nel confronto e alla sua soddisfazione visibile nel ritrovarsi in atmosfere di cultura e convivialità, a tutto tondo, fra artisti e persone. Trasmetteva sapere e ad ascoltarlo si stava attenti, non ci si accorgeva del tempo che passa, ma si seguiva il filo del suo racconto.

Non occorreva chiedergli se gli sarebbe piaciuto continuare ad insegnare: per lui parlava lo sguardo. Lì si trovava la risposta, nella luce brillante degli occhi che trasmetteva poesia quanto le sue opere.

È stato senza dubbio il più fiammingo dei pittori calabresi. Le sue atmosfere le ritroviamo in Jan Van Eyck: la minuziosità figurativa dei “Coniugi Arnolfini” e l’intensità fisiognomica de “L’uomo dal turbante rosso” sono appena due – a titolo di preciso esempio – delle doti di assonanza pittorica che lo hanno legato a quella grande scuola. E altre ce ne sono, e rimangono perpetue, impresse nella molteplicità delle sue opere.

Aurelio Fulciniti

Gianluca Posella, il fotografo sempre dietro l’angolo.

Gianluca Posella lavora nel settore del turismo e della comunicazione. Il rapporto stretto e di reciproca attenzione che ha con le persone lo mette in evidenza in quella che – come ammette nell’intervista – è stata sempre per lui una pura passione, vale a dire la fotografia. Ma pur essendo un piacere e un diletto, lui ci si dedica da professionista. I colori, il buio, la pioggia, la nebbia, fanno tutti parte del suo studio certosino per l’immagine. In ogni sua foto scopri e apprendi sempre qualcosa di nuovo. C’è magma emotivo, densità, ma soprattutto curiosità. Ogni sua foto vuole raccontarti una storia e sta a te, da osservatore, il compito di immergerti e abbandonarti nel suo racconto. L’animo del reporter è in lui e non ha problemi a definirsi tale: anzi, il reportage – come scopriremo più avanti – è uno dei campi in cui si trova più a suo agio. Non solo i luoghi, ma soprattutto i volti delle persone parlano a noi che guardiamo e osserviamo. Nelle foto, nell’andatura a compasso delle persone che camminano in un vicolo o su un corso, c’è tutta la loro storia. E c’è mistero emotivo anche negli occhi di chi viene ritratto da un fotografo sempre dietro l’angolo: in ogni sguardo immaginiamo una storia, che sia realtà o finzione. E c’è anche molto rispetto per le persone: nessuno si sente spiato, ma di chi è ritratto vogliamo subito immaginare chi è, cosa fa, perché si trova lì, in quel certo posto, a quella determinata ora. Ma il tutto rimane sempre nel mistero dell’arte e della vita, aperto all’interpretazione di chi osserva.

La stessa foto utilizzata per la copertina è un enigma. C’è una stradina in salita, c’è la nebbia, piove, e c’è una persona in cima che cammina, in una notte d’inverno. E tutto d’un tratto, senza neanche vederne il volto, immaginiamo di voler sapere tutto di lei. E qui sta il potere evocativo di un’immagine.

Ma ora passiamo all’intervista. D’altronde siamo qui per questo, la attendevamo con ansia.

– La prima domanda è – come accade in tutti i casi – riferita alle origini: come è nata la passione e poi ovviamente il mestiere della fotografia?

Nel mio caso parliamo di pura e semplice passione; scatto fotografie per il gusto a volte compulsivo, di immortalare una situazione che mi ha colpito, oppure per documentare qualcosa, nel tempo. La passione è iniziata da bambino, durante i viaggi che con la famiglia. Papà possedeva un paio di macchine fotografiche; ho iniziato a 12 anni con una reflex tedesca un po’ spartana, ma ottima: una Praktica. La passione per i fumetti ed i film, col tempo ha fatto il resto. Non posso definirmi un professionista, perché ho ho venduto delle stampe raramente; una delle occasioni che ricordo ben volentieri è un’asta di beneficenza, relativa ad una raccolta fondi destinata ad ospedali calabresi, durante l’emergenza Covid. Generalmente regalo scatti a chi sceglie di offrirmi fiducia, facendosi ritrarre nello svolgimento delle proprie attività o nel corso della sua giornata, poiché ho una vera e propria passione per il ritratto contestualizzato ed il reportage.

 – Sono parsi assolutamente geniali i tuoi “appostamenti” con le persone riprese nell’attimo, in strada, con te appostato nei vicoli, di fronte o di profilo, mentre camminano piano o velocemente, alcune volte ripresi di spalle. Non si accorgono di essere entrati nel tuo obiettivo. Com’è nata l’idea e quali spunti ti ha offerto o può offrire?

Come dicevo pocanzi, scatto d’istinto, in maniera compulsiva. Mi capita di camminare per strada e riconoscere nello scorcio di un vicolo, una “scenografia”; che disponga sul momento di una macchina fotografica o di uno smartphone, poco importa, mi apposto nell’attesa che passi qualcuno. Il bello è che non ho mai la contezza di chi si troverà a transitare, né se accorgendosi della mia presenza, mi regalerà un’espressione. Una cosa è sicura, in ogni istante che “rubo” ho sempre ed in ogni caso, rispetto della sofferenza, e prima ancora, della dignità altrui. Molto spesso assistiamo sui social a foto strappalikes che ritraggono persone in stato di disagio, io quelle situazioni lì preferisco conservarle nella testa anziché ritrarle. C’è un limite etico, che non andrebbe mai oltrepassato, a meno che, non lo si faccia a vantaggio della persona in difficoltà; lì cambia tutto, ma ovviamente non è cosa da tutti, a cominciare da me. L’idea di fondo è quella di usare la scenografia dei vicoli a mo’ di cornice. Ci sono delle situazioni che partono sul momento, ad esempio potrebbe colpirmi una determinata illuminazione, o situazione atmosferica, altre volte alcuni colori accesi diventano lo spunto e la chiave di lettura di una situazione, altre volte ancora mi appunto un orario e ripasso il giorno dopo, sperando nel fattore “C” (che ovviamente sta per colpo di fortuna, sempre necessario ed imprescindibile, per tutti).

– Le tue foto scattate alla “Naca”, alla rievocazione del Venerdì Santo di Gagliano sono a dir poco sorprendenti. Quelli che potevano sembrare semplici figuranti, nelle tue foto diventano protagonisti di una storia reale, presi nel momento stesso in cui essa accade. Entri nei loro sguardi e ci trasmettono molto più di quanto succede. Come riesci a creare questa sinossi fra ambiente, soggetti ritratti e osservatori esterni del tuo lavoro, che in questo caso diventano davvero spettatori?

Le Processioni mi hanno sempre affascinato. Scattare foto nelle rappresentazioni sacre è una cosa non semplice, che necessita di alcuni requisiti: conoscenza dell’evento, del luogo e dei tempi di svolgimento, colpo d’occhio, velocità e capacità di improvvisazione (a meno che non si disponga di una lente tipo zoom tuttofare, bisogna adattarsi con quello che si ha, portando l’eventuale difficoltà a proprio vantaggio), da ultimo, un po’ di faccia tosta, ricordandosi sempre di rispettare e tutelare la sicurezza propria e dei figuranti. L’effetto al quale ti riferivi, dipende dallo scattare le foto provando a mescolarsi nella Processione e scattando da diverse angolazioni e punti di vista. Viviamo nell’epoca della digitalizzazione massiccia dei contenuti; ognuno vuole portarsi a casa una foto,  facendolo con qualsiasi mezzo, senza preoccuparsi di chi cerca, al fine di preservare e tramandare le tradizioni, di effettuare degli scatti “puliti”; diventa quindi necessario ed inevitabile mescolarsi fra i figuranti, bypassando gli spettatori. Ovvio che se, e quando si può, è sempre meglio chiedere un pass agli organizzatori della rappresentazione.

– Anche il reportage sul Pontile dell’ex SIR, in cui mostri un luogo dimenticato e decadente, si rivela penetrante e parla da solo. Puoi raccontare la storia di questo luogo – che non molti conoscono – e che sensazione ti ha trasmesso a lavorarci su?

Sul mio profilo IG ho scritto che i miei scatti riguardano l’uomo, i segni della sua attività ed il modo in cui lo stesso si mette in correlazione con la Comunità che lo circonda. Il Pontile Ex SIR è un luogo che parla non solo di impatto ambientale (la prima cosa che salta all’occhio), ma anche e sopratutto della storia politica, economica e purtroppo del malaffare della nostra Calabria. Non è solo il copione dell’ennesima azienda che ha deviato fondi pubblici dal sud verso il nord, ma è anche e sopratutto una vicenda che si ripete ciclicamente e vede amministratori più interessati più al proprio tornaconto che al mantenere gli impegni presi, ed elettori miopi, smemorati e/o ingenui. La storia dell’Ex Sir, per come ho avuto modo di analizzarla, è intrecciata con Saline Joniche, Gioia Tauro, i moti di Reggio e quanto ne è drammaticamente conseguito anche in città nel ’71. Ancora oggi, nella gestione della cosa pubblica calabrese, nell’accesso alle cariche pubbliche e nella rappresentanza politica, ci trasciniamo dietro quel carico di eventi, atti e persone di quel drammatico biennio. È un argomento che va trattato con le pinze, in quanto ancora terreno scivoloso. Ad ogni modo, ritornando alla domanda, alla base delle ragioni che portarono alla costruzione del pontile, c’era la necessità di creare dei posti di lavoro che stemperassero le tensioni in quel grosso calderone dei Moti. Ci furono delle manovre politiche, diremmo alla “tarallucci e vino”, atte a bilanciare gli interessi contrastanti di Reggio Calabria e Catanzaro, ed in quelle operazioni (tutte legali), si inserirono naturalmente degli speculatori economici e/o del malaffare. Il risultato è quello che vediamo oggi: una struttura decadente, una voragine di spreco e danni, che riflette in maniera speculare l’arretratezza economica, infrastrutturale, sociale ed amministrativa della nostra Calabria e per alcuni versi anche del resto del Paese.

– Nelle tue foto c’è sempre un movimento, una ricerca del dinamismo positivo anche laddove un occhio meno attento non riuscirebbe ad individuarlo. C’è vita. Si può dire che è tutto molto rock, per usare una definizione che per molti risulterebbe banale, ma è molto calzante. E’ una passione che si mescola con la fotografia?

Quella per la musica è una passione che mi accompagna sin da ragazzino, come per la fotografia: sono un autodidatta, con un approccio molto impulsivo, istintivo. Adoro ascoltarla (spazio dal blues rurale al rock, passando per i classici fino alle contaminazioni del funk, del dell’heavy metal e del grunge fino alla prima metà degli anni ’90), adoro suonarla, suono da autodidatta la chitarra acustica, elettrica e slide, il basso elettrico, l’ukulele e l’armonica blues, e infine, amo fotografare la musica live. Ovviamente ascoltare e suonare sono due cose che mi hanno aiutato tantissimo in fase di scatto, specie quando si ha a che fare con soggetti posti in zone poco illuminate e si possiede un’attrezzatura non proprio professionale; mi riferivo proprio alla gestione di questo problema, parlando di capacità di improvvisazione: la conoscenza della macchina e un minimo di calcolo matematico e preveggenza, riescono a far uscire una foto accettabile, anche quando sembra sia impossibile.

– Un’ultima domanda che, come la prima, sembra banale ma non lo è: quali sono i tuoi progetti futuri?

È difficile dare una risposta a quest’ultima domanda; in campo fotografico, per quanto ad alcuni possa sembrare “statico” il mio modo di vedere il mondo, non lo è altrettanto la mia curiosità. Mi piace analizzare altri punti di vista, altre tecniche e, se possibile, riadattarle a mio piacimento. In campo musicale è la stessa identica cosa, tuttavia, mentre per quel che riguarda la fotografia, mi piace confrontarmi con altri appassionati, in ambito musicale ormai suono per lo più da solo, limitandomi di tanto in tanto, a creare e registrare dei progetti in multitraccia, curando ogni singolo arrangiamento. In cantiere, al momento e per il prossimo futuro, ho in progetto una serie di romanzi polizieschi che spero prima o poi di pubblicare. Sto provando a promuovere un primo libro, e nel frattempo, impegni familiari e lavorativi permettendo, ne sto scrivendo un secondo, ma con la testa sono proiettato sui libri successivi. Chissà, magari un giorno potrei anche vedere la mia faccia stampata sul retro di un volume, in libreria. Fotograficamente parlando invece, sogno di un reportage di viaggio in Asia; mi piacerebbe documentare le differenze fra le zone a vocazione prettamente turistica, ed i luoghi prevalentemente rurali. Tuttavia, è un progetto che richiede molti soldi, tempo, e sopratutto la sicurezza di un mondo normale e libero.

Aurelio Fulciniti

Raffaele Luna, il pittore delle magiche impressioni.

Barbiere e parrucchiere per mestiere, ma pittore e artista vero per vocazione, Raffaele Luna (o Alfredo, come lo chiamiamo anche) lo puoi trovare nel suo Salone in piazza Marconi a Catanzaro, che ha “ereditato” dall’indimenticabile Gori Regolo. Artista e pittore eclettico, è capace di vari registri stilistici, ma soprattutto di una pittura sobria e vivace, con una maestria curata nei giochi di luce ed ombre, che privilegia la solarità dei luoghi, in un’ambientazione en plen air di cui Raffaele ha avuto un grande maestro, del quale fra poco si parlerà. E lì nasce la vena impressionista che lo porta a trasmettere le emozioni date da volti, figure, luoghi, grandi e piccoli oggetti in maniera del tutto soggettiva, anche per l’osservatore. Raffaele ti porta nel mondo che ha dentro e mette sulla tela, ma ti dà anche la possibilità di immaginare, di riconoscere tutto a tuo modo. Una dote che non appartiene a tanti, ma che se vogliamo è la summa dell’arte e della pittura in generale.

Nelle sue opere vedi impressioni che non ti aspetti di trovare, catturate nelle vie, nei vicoli, nelle strade, nei balconi, persino sui davanzali, dove la luce in qualche modo domina sempre.

E qui siamo rapiti dalla sua arte, che si collega a quella di un Maestro, di un grande Maestro. E lasciamo a Raffaele il dono di parlarne.

“La passione me l’ha trasmessa mio nonno, che mi vedeva sempre disegnare e non faceva altro che comprarmi matite colorate e album da disegno, a Cirò Marina, dove sono cresciuto. Arrivo a Catanzaro ed all’età di 13 anni ho la fortuna di conoscere il Maestro Gioacchino Lamanna. Mi ha sempre colpito la sua pittura, impressionista o macchiaiola, come si suole dire. Da quando lo vedevo dipingere all’aperto ed ogni volta c’era qualcuno che mi diceva “vedi che c’è il Maestro Lamanna a dipingere”, io staccavo dal lavoro e andavo a vederlo. Lui notò questa mia presenza assidua in ogni vicoletto e in ogni piazza di Catanzaro e lui stesso ogni volta mi faceva sapere: “Sono in quel vicoletto. Se vuoi venire io sto lì”.

“Lui ha voluto vedere un mio quadro e ha visto che avevo del talento. Ogni volta che, finito di lavorare passavo davanti casa sua, come vedevo la luce accesa nel suo studio, gli suonavo per salire e vederlo dipingere. Sono stato presente anche nel 1976 quando realizzò i grandi dipinti per la chiesa di Piano Casa. Dal primo giorno in cui l’ho conosciuto sentivo i nipoti che lo chiamavano “zio” e per me è rimasto “zio Gioacchino”.

“Sono attaccato a lui, sia per i suoi consigli che mi hanno fatto bene per la mia pittura, ma anche perché è stato un uomo umile con una bontà che poche persone hanno. Se sono arrivato a questo tipo di pittura è grazie a lui, che mi ha spiegato la musicalità dei colori”.

“Sono legato a tutte le opere che ho dipinto seguendo il suo stile. Quelle non le venderò mai”.

Alle volte Raffaele immagina non solo la gamma vivace dei colori, ma anche i luoghi e gli scorci nella sua mente e li traduce in un dipinto che ci ricorda subito qualcosa, come ad esempio una strada che ci sembra familiare, ma che lui ha solo immaginato, senza conoscerne il nome e nemmeno la somiglianza con un qualsiasi luogo esistente, bensì abbandonandosi solo al fluire delle sue impressioni. Tutto entra nel nostro inconscio e ci accorgiamo di trovarci in un luogo che lui non immaginava di preciso, ma che noi subito riconosciamo. Quasi un potere ammaliatore, un’arte magica trasmessa dalla pittura incantatrice.

C’è qualcuno che – a proprio dire – gli rimprovera i volti in apparenza tristi, ma che sono in realtà scarni nella loro sobrietà. Sono volti austeri, tracciati soprattutto dall’autenticità, dall’umanità, ma anche dal lavoro e talvolta solcati dalle rughe, che portano con sé una vita, un crogiuolo di tradizioni che ogni volta prevale nello scorrere degli sguardi. Sono la fatica e il vissuto di un’esistenza piena a trasparire dai suoi volti, quelli di una Calabria autentica i cui personaggi, sulla tela, ricordano quelli descritti dalla prosa asciutta dei romanzi di Saverio Strati, per citare un grande scrittore che descrisse la nostra terra e i suoi abitanti per quello che realmente sono, al di là di qualsiasi giudizio dolente e frettoloso, e cioè scabri, orgogliosi e fieri.

La tavolozza di Raffaele non traccia soltanto i volti, ma anche tutto ciò che li circonda: capita così che il pieno sole, il quale illumina la strada spuntando vivace nel primo pomeriggio, dopo la pioggia, metta la luce del cuore negli occhi di chi osserva, perché nulla gli sfugge e il suo animo suggestivo e magico sa renderlo con sapienti effetti, facendo diventare prezioso ogni singolo particolare.  

Aurelio Fulciniti

Guarderemo l’arte e la vita pensando a lui. Ricordi su Gioacchino Lamanna.

Se dovessi citare i miei ricordi su Gioacchino Lamanna, come tanti altri comuni amici non saprei davvero da che parte cominciare. Tanti momenti da ricordare, alcuni anche piccoli o brevi, istanti di vita, ma sempre significativi e vivaci.

Per prime mi vengono in mente le tante volte che l’ho visto dipingere all’aperto, “en plein air”, come i suoi amati impressionisti, che insieme ai macchiaioli toscani erano parte integrante della sua formazione e ispirazione. Vederlo dipingere per strada con il suo cavalletto era davvero una gioia per gli occhi e soprattutto per lo spirito. Fermarsi a guardare, poi, era come sentirsi parte dell’opera. In una città soffocata dalle automobili lui non ci badava. Non cercava necessariamente gli spazi vuoti. Come tutti noi amanti dello spazio e del bello li avrebbe voluti, ma non trovandoli andava avanti con la fantasia, con una vita traboccante di colori che usciva fuori dalle sue pennellate. E alle volte, dipingeva anche qualche auto parcheggiata, facendola apparire sempre come un’intrusa, ma più colorata e gentile.

Le sue mostre alla Galleria “Mattia Preti” a Palazzo Fazzari erano un appuntamento fisso e col tempo una consuetudine, un invito alla presenza implicito ed irrinunciabile. Spesso a ridosso del Natale o della Pasqua, finché c’è stata la “Mattia Preti” c’era lui. E oggi pensare a quel luogo chiuso, dimenticato e abbandonato è triste. Ma quando ci viene in mente Gioacchino gli stessi luoghi e gli stessi volti di allora tornano magicamente vivi ed attuali nella nostra memoria.

Ho avuto più volte l’occasione di essere suo ospite, apprezzandone l’umanità, la disponibilità, l’attitudine alla convivialità e la magica alchimia che lo rendeva capace di farti partecipe della sua casa e della sua famiglia.

Ma se devo citare un momento particolare fra tutti, risale all’ultima sua mostra a cui sono stato presente. Era il 2018, al Complesso Monumentale del San Giovanni. Mi chiese qual era l’opera esposta che mi colpiva di più visivamente. E io gliela indicai. “Hai un ottimo occhio”. Detto dal maestro indiscusso del colpo d’occhio, è un complimento davvero d’autore, che mi resterà sempre dentro.

Ha realizzato molte opere per la città, ma se devo citare quella che mi ha sempre colpito di più è l’affresco a secco esterno della Chiesa di Santa Maria del Mezzogiorno. Lo ha dipinto nel 1991 e lo ha restaurato personalmente di recente.  Una dimostrazione di affetto verso la sua opera ed il luogo che la ospita, che ricorda alcuni esempi, uno dei quali in Calabria. È il caso, per citarne uno, degli affreschi nel castello di Fiumefreddo Bruzio realizzati e poi restaurati da Salvatore Fiume nel 1976 e poi nel 1996. Un esempio illustre, ma Gioacchino è unico, come tutti gli artisti, e lo è stato per tanti versi il suo amore per la città.

Ma ora è importante ed è sempre bello riportare i ricordi di artisti che sono stati anche suoi amici – alcuni sin dalla giovinezza – o allievi. Persone a cui adesso tutti noi lasciamo spazio, leggendole, perché ci raccontino Gioacchino visto coi loro occhi, mantenendo l’arte e la vita vissuta in un unico pensiero.

“Quanto ci ritenevamo fortunati quando, per qualche bonario sentimento del Dio dell’Arte, qualche noioso docente si beccava un raffreddore qualsiasi lasciando aperta la porta della supplenza al giovane professore Lamanna! La sua bonarietà spazzava subito il nostro timore di esprimerci in modo creativo; il suo sincero amore per gli artisti ce li faceva finalmente conoscere come uomini e donne pieni di vita e di forza e non solo come semplici trafiletti o capitoli del nostro libro di Storia dell’Arte che l’insuperabile Giulio Carlo Argan aveva provveduto a infarcire di concetti filosofici e inestricabili considerazioni ermeneutiche. La sua competenza e la sua confidenza con la tecnica del disegno e pittorica veniva trasmessa con la potenza dell’esempio e non con la tracotanza del farmacista che solo conosce le dosi perfette del preparato chimico: “Provate ragazzi … solo così potrete inventare qualcosa di adatto alle vostre capacità”. Ultima, ma non ultima tra le sue doti, la sua esuberante catanzaresità che non solo gli dettava la frase dialettale giusta al momento giusto (facendosi ancora più prossimo ad ognuno di noi), ma, come un grande pedagogo dell’arte ante litteram, ci faceva conoscere ed amare le bellezze e le peculiarità del nostro patrimonio culturale e artistico cittadino (non solo i luoghi, ma anche i protagonisti della scena artistica locale quale il Maestro Saverio Rotundo allora da tutti considerato poco più di un folle provocatore). Già allora amava profondamente ciò che faceva e, per osmosi, ce lo faceva amare facendoci partecipe delle sue ricerche in atto, delle sue mostre e anche delle sue delusioni. Questo suo atteggiamento globale verso l’arte non passerà inosservato ad un attento critico che volesse passare in rassegna la gran parte dei suoi lavori. Può essere condivisibile, ma non sarebbe da lui approvato (almeno dal prof. Lamanna di cui ho memoria e che sto raccontando), inquadrare il suo stile nell’affascinante panorama dei Macchiaioli italiani, così simili e così diversi dai fratelli impressionisti d’oltralpe che ebbero più vasta eco internazionale cui pure la sua opera può essere associata. Ma, a mio modesto avviso, le sue opere attingono a piene mani nel più ampio e tempestoso clima del Novecento, Fauves, espressionisti e post impressionisti inclusi senza mancare di riferirsi all’arte popolare del catanzarese Giovanni Paladino che rappresentò per lui una costellazione di riferimento nella sua attività di affresco di icone sacre. È pur vero che nel pieno della sua maturità artistica la sua tavolozza si sofferma sui colori puri dei cieli e degli ambienti mediterranei, della sua amata Catanzaro nell’esplosione della natura primaverile e delle infuocate estati calabresi in cui l’equilibrio tra gialli infiammati, verdi brillanti, azzurri profondissimi e aranciati sorprendenti costruiscono atmosfere vibranti, luminose e familiari. La sua non fu un’azione di copia pedissequa, di citazione scontata: piuttosto mi piace pensare che abbia seguito il motto del mitico Maestro Saverio Rotundo che amava dire in catanzarese: “l’artisti su latri!”. Mi piace immaginarlo così il mio amato prof. Lamanna, come una sorta di Arsenio Lupin della pittura che con destrezza ruba i giocatori di carte a Cézanne, le bagnanti e i riflessi della luce del sole tra le foglie a Renoir, fa diventare le scogliere di Caminia quelle de l’Etretat di Monet, le fanciulle tranquille dei suoi interni le ha rapite a Silvestro Lega, le strade bagnate dal temporale estivo a Catanzaro portano alla Parigi di Pissarro, l’intensissimo ritratto di Bruno Rachieli (l’amato Yeyè per noi catanzaresi di una certa età) nella posa e nell’espressione rubato al grande Van Gogh … e si potrebbe continuare a lungo.

Ho sempre associato il sorriso e la bontà del prof. Gioacchino Lamanna al volto vero della mia gente, al volto stesso della mia e della sua Catanzaro. Il suo ingegno potente e la sua capacità resiliente di trovare il bello ovunque e ad ogni costo, non può, non deve essere dimenticato. Il nuovo corso verso cui s’avvia Catanzaro spero sia foriero di una diversa attitudine nei riguardi della sua memoria. Confido e auspico che la nostra città manterrà nella sua storia, magari in una delle viuzze da lui magistralmente immortalate, il caro nome del Maestro Gioacchino Lamanna”.

  • Cosimo Griffo, architetto, docente di Storia dell’Arte e Disegno all’I.I.S. “Fermi” di Catanzaro

“E’ con grande tristezza che mi accingo a scrivere del Maestro Gioacchino Lamanna. L’amico, il Maestro, una persona cara. Lo conoscevo da bambino, perché mio padre e suo fratello  Mario lavoravano insieme presso la Tipografia dei fratelli Ajello allocata sotto il cinema teatro Masciari. Da piccolo passavo molto tempo in tipografia e  capitava spesso che  Mario Lamanna mi chiedeva di andare a casa dei suoi genitori che abitavano a piazza Roma vicino il bar Condorelli per alcune commissioni; e li mi fermavo a guardare Gioacchino lavorare, ero affascinato dalla creazione di alcuni piatti, li anneriva pazientemente all’interno con il  fumo di una candela, fino a farli diventare neri e lucidi, poi sapientemente con asticciole sottili  appuntite usate come matite e  delle piume di qualche animale usate come pennelli, creava volti, paesaggi e nature morte di rara bellezza. Per me era magia.

Io ho sempre disegnato, fin da piccolo, ed ammiravo Gioacchino con particolare affetto, viste le frequentazioni a casa sua, desideroso di emularlo. Poi crescendo mi sono iscritto al Liceo Artistico cittadino dove ho iniziato la mia formazione, e qui ho ritrovato Gioacchino come insegnante. Non era nella mia sezione, ma spesso andavo a lavorare nelle sue classi per meglio apprendere i suoi insegnamenti.

Fatta questa premessa, mi viene veramente difficile dare un contributo sull’arte dell’Artista Gioacchino Lamanna, perché Gioacchino era “l’Artista dell’Anima”, aveva cuore e creava con raro sentimento professionale i suoi lavori. La sua pittura nasceva tra immagini di angoli sognati, di paesaggi calabri, volti e ritratti, tra atmosfere di poesia dipinte, con la dolcezza e la sensibilità di chi conosce e si mantiene fedele alla tradizione della pittura spontanea, senza mai cadere nel convenzionale. Era un cantore della terra di Calabria e della sua Città, testimone originale delle bellezze che dipingeva. Una tavolozza invidiata e copiata da tanti, ma il suo cromatismo era unico, sapienti accostamenti senza indugi, fughe perfette per una prospettiva intuitiva che dava spazio e profondità, il tutto dato con veloci pennellate a volte non definite ma che davano una precisa immagine a chi guardava l’opera. Era tecnica, capacità artistica, Maestria di chi con il colore ci viveva e lo adoperava e lo donava con sapienza, come gli antichi Maestri.

Gioacchino era un Maestro, una persona gentile, buona con tutti e dava la sua amicizia con affettuosità. La sua spontaneità era disarmante: non ha mai fatto pesare il suo immenso talento, anzi ci scherzava sopra, dava una pacca sulla spalla e con il suo sorriso ti incoraggiava.

Caro Gioacchino, ora dipingi tra le nuvole che sicuramente sono belle come quelle che hai dipinto nei tuoi lavori, ci mancherai. Fai buon viaggio Maestro”.

  • Umberto Falvo, pittore

“Ho conosciuto Gioacchino Lamanna quando ero bambino. Era più grande di me di sette anni, che, a quell’età, sembravano tanti: portavo i pantaloncini corti e lui era un giovanottone muscoloso, capace di spostare una Fiat 500 sollevandola con le mani. Veniva spesso nel mio rione (in Via Schipani) per incontrare i cugini, miei compagni di giochi. Anche in quelle occasioni montava il suo cavalletto e, in qualche ora, tirava fuori un piccolo capolavoro dipinto su faesite. Mi sbalordiva la rapidità di esecuzione e la capacità di lasciare scoperte molte parti della faesite per le zone d’ombra. Eravamo ai confini con la campagna e non dimenticherò mai i suoi verdi luminosi! Mi guardavo bene dal dirgli che facevo dei quadretti…ma glielo dissero i cugini! Volle ovviamente vedere cosa dipingevo e, vergognandomi come non mai, gli mostrai una decina di cose realizzate a pastello (non usavo ancora i colori ad olio). Le sue parole di apprezzamento mi risuonano ancora nelle orecchie, specialmente quando seppe che avevo 12 anni. Ne fui orgoglioso e raccontai tutto a mia madre, nella speranza che mi perdonasse il disordine che creavo in casa, ma con scarsi risultati! Passati alcuni giorni, Gioacchino tornò nel rione ed un suo cugino venne a dirmi che mi voleva parlare. Lo trovai sotto casa con un’enorme scatola di pastelli… “Me li hanno regalati, ma sono certo che tu ne farai buon uso” mi disse: era più commosso di me. Fu la prima volta che abbracciai Gioacchino. Nessuno dei due sapeva che quel dono prezioso stava contribuendo a tracciare il mio destino di pittore. Ecco, questa è solo una piccola testimonianza di chi fosse Gioacchino Lamanna”.

  • Giovanni Marziano, pittore

“Gioacchino era per me un amico e collega, più grande anagraficamente di me. Maestro di tecnica , capace di fotografare, nelle sue tele, paesaggi e luci del nostro territorio con sapienza post impressionista, utilizzando poche e rapide pennellate per raggiungere una sintesi realistica dell’immagine. Abilissimo anche come ritrattista e nello studio delle figure umane, lascia una corposa produzione di quadri che lo rendono indimenticabile figura artistica e culturale della città di Catanzaro. L’amicizia e la stima che avevo per lui mi lasciano sgomento, ma la convinzione che un artista non muore mai perché vive nelle sue opere, mi consola dal grandissimo dispiacere”.

  • Alfredo Pino, scultore

“Ho conosciuto Gioacchino su Corso Mazzini una domenica del 1982, in quanto amava dipingere gli scorci del centro storico di Catanzaro ed in quella occasione mi mostrò anche alcune tele luminosissime di Villa Trieste, luogo a lui molto caro . Era un vero pittore impressionista: infatti, nei suoi quadri, i visitatori delle sue mostre riconoscevano le loro case, le vie e le piazze che sulla tela prendevano altre forme ed apparivano più belle per merito della sua tavolozza”. 

  • Alberto Pirrone, pittore

“Non è stato il mio professore, perché io sono stata allieva della moglie. Ma a scuola lo ricordo sempre gentile ed affettuoso, che sosteneva i giovani ed appena ha saputo di noi, dopo, nel corso degli anni, si è sempre tenuto informato su quello che abbiamo fatto, sul nostro percorso artistico. È stato determinante e reso unico dalla sua semplicità e dalla sua gentilezza. Gli piaceva il mio lavoro ed era interessato a quello che facevo. Ma più in generale gioiva lui stesso per quello che i suoi studenti realizzavano. Ed è quello che più ci mancherà di lui, la sua umanità e la sua assoluta mancanza di invidia o di un qualcosa che anche lontanamente gli potesse somigliare”.

  • Lucia Rotundo, scultrice

“Gioacchino è stato, oltre che un amico, un pittore di stile impressionista e post impressionista molto preparato. Un bravo docente e una grande persona, non presuntuoso e sempre pronto a dare suggerimenti utili a migliorarti. Naturalmente, per ciò che riguarda critiche e recensioni, non sta a me commentare. Io guardo la persona dal lato umano ed è questo che più mi mancherà di lui”.

  • Giovanni Chiarella, pittore

Dall’altro canto fin da oggi si può pensare alle grandi iniziative che si possono realizzare per trasmettere e valorizzare il valore dell’opera complessiva di Gioacchino Lamanna, perpetuando la sua Memoria.

Ad esempio, se si volesse realizzare un’esposizione collettiva di tutte le sue opere, frutto di decenni di attività, non ci sarebbe uno spazio adatto abbastanza grande per contenerle. È vero che ogni persona che ha avuto l’immensa fortuna di conoscerlo ha quasi sicuramente almeno una sua opera in casa, ma una scelta accurata – partendo ad esempio dai collezionisti più grossi – potrebbe essere un buon punto da cui iniziare. E si può provare.

Ma il regalo più bello che gli si possa fare sarebbe un intervento di tutela definitivo quello che è – con buona probabilità –  il dono più bello da lui fatto alla città: il già citato affresco a secco all’esterno di Santa Maria del Mezzogiorno realizzato nel 1991, su invito e richiesta dell’Arcivescovo, Sua Eccellenza monsignor Antonio Cantisani, per l’elevazione della chiesetta a Santuario. Per farlo restare e splendere in maniera perpetua sarebbe sufficiente intervenire secondo il sistema che lui stesso ha indicato. Ed è nella rinnovata sensibilità artistica e culturale della nuova amministrazione comunale il potere di farlo.  

Santa Maria del Mezzogiorno è un luogo a cui Gioacchino Lamanna era legato per tanti motivi, ma uno in particolare spicca su tutti. Essendo nato in via Pastaioli – l’attuale via Burza – un tempo brulicante di botteghe di pasta fresca e perciò così denominata, aveva Santa Maria del Mezzogiorno come parrocchia.

Dopo il secondo restauro, Gioacchino Lamanna ha in più occasioni detto la sua, con le consuete doti di pacatezza e umiltà, sulla necessità di tutelare definitivamente l’affresco, sottolineando che “la pioggia non è più quella di una volta e a lungo andare distrugge tutto, figuriamoci un affresco, esterno per di più” e suggerendo di “intervenire con una protezione plastica permanente, per proteggere l’opera dagli interventi esterni”. Ci vuole poco, e in mezzo a tanti sarebbe uno splendido regalo, a Gioacchino, alla città di Catanzaro e alla Calabria che lo ha conosciuto e ammirato custodendo le sue opere in tanti luoghi.

AURELIO FULCINITI

Il suo sguardo sul mondo resta dentro di noi. Omaggi a Gioacchino Lamanna.

L’eredità più bella che ci lascia Gioacchino Lamanna è il suo sguardo sul mondo. E lo si capisce subito leggendo oggi ciò che scrisse il dottor Sergio Rubino, medico pediatra, il più caro amico di Gioacchino, nonché il maggior collezionista delle sue opere e praticamente il suo mecenate di rinascimentale memoria in occasione del suo 75° compleanno, il 28 ottobre 2017. Parole dettate dal cuore e dall’anima, oltre che dalla sorgente di una lunga e fraterna amicizia e da stima reciproca. E chi ha avuto l’immensa fortuna di conoscerlo – e siamo in tantissimi – non può che condividerle. Entrambi non sono più tra noi, ma li riviviamo attraverso le parole. Anche in questo momento ed ancora di più in futuro, le opere di Gioacchino non rimangono su una tela, ma diventano vere. Le possiamo respirare. Il profumo della natura, lo stesso che lui respirava quando dipingeva lungo le strade, en plein air, resta dentro di noi. Un quadro non resta solo un’opera d’arte, ma anche uno spettacolo che ci circonda vivendo. In queste sensazioni che ci lascia c’era tutto lui: la sua serenità d’animo, la sua lealtà, il suo amore per la bellezza nelle sue forme più naturali. Ci mancherà il poterlo incontrare e parlare con lui, ma la sua presenza garbata e gentile ci rimane accanto, vicino a noi e non scomparirà mai. Ogni volta che davanti a un suo quadro ci capiterà di sentire nitidamente il profumo dei fiori o l’odore del mare sarà perché c’è lui accanto a noi. E così sarà sempre, finché avremo occhi per vedere e pensieri da ricordare.

Aurelio Fulciniti

Fin qui c’è il ricordo di chi scrive, ma ora c’è da riportare un ritratto importante, di qualche anno fa, citato all’inizio, quello di un amico fatto da un amico. Ed eccolo di seguito…

28/10/2017 A GIOACCHINO NEL GIORNO DEL SUO 75* COMPLEANNO Come si fa a scrivere di Gioacchino Lamanna sapendo sin dal principio di non essere obiettivo? Come si fa a non fare entrare il cuore in queste poche parole? Perdonate dunque la mia faziosità, ma per me (e non solo) Gioacchino È un Mito e come Tale è rimasto da sempre fino a diventare leggenda: Ecco, proprio così.. IL LEGGENDARIO GIOACCHINO. Gioacchino è un artista, perché l’arte è dentro di lui. Colori, musica, poesie: ci sembrano mondi astratti, ma in realtà popolano il nostro io, ci aiutano a superare le difficoltà pratiche dell’esistenza, a ritrovare ogni volta la molla per rinascere. Chi di noi, da bambino, non ha colorato un foglio con cielo e nuvole, prati e fiori? Prima delle favole abbiamo inventato tutti un arcobaleno solo nostro. Poi però arriva la vita, con i suoi appuntamenti inesorabili, e la società che ci chiede i documenti: chi siamo e quale ruolo vogliamo giocare. L’importante è che abbandoniamo i sogni impossibili: il nostro arcobaleno. La stragrande maggioranza accetta le condizioni pratiche della società ma soltanto i migliori – come Gioacchino – un pugno di sognatori, rifiuta le convenzioni e abbraccia la vaghezza di una meravigliosa vita artistica. E guardando le opere di Gioacchino è come ritrovarci con i colori dell’infanzia in mano. Giro per casa ed ammiro sempre di più l’arte del mio amico. Ed ho scoperto una cosa sensazionale: ogni quadro ha un suo profumo. Mentre scrivo, sto cercando in qualche angolo del mio cervello il profumo dei quadri di Gioacchino, foglie secche d’autunno che stranamente ispirano vita… Ma sì, respiro quelle foglie stanche, che profumo di lavanda! L’ aroma è nei suoi fiori viola intenso, che resistono al sole di un’intera estate, e profumano sempre-un tentativo di eterno presente-un sogno d’artista-un sogno di Gioacchino appunto. Gioacchino dipinge secondo l’umore del giorno: dipinge paesaggi velati di nostalgia, radici di alberi, vecchietti intenti a giocare a tressette attorno ad un tavolo. Sapessi tenere un pennello fra le mani, io seguirei le sue tonalità in apparenza stanche: ma in realtà smaniose di un colpo di vento, che porti via ogni sospetto di tramonto profondo. Eccolo, il mio arcobaleno che soffoco dentro da anni, fino a rinnegarlo a me stesso: respira nei quadri di Gioacchino. E mi sento meno solo al mondo: so che un grande artista, il grande Gioacchino sta sfidando per me la società del programmato. Cosa dire del mio amico!!! Mi basta pensare a lui e alla sua amicizia e la turbolenza scompare d’incanto. Una gioia, una calma inebriante mi pervade tutto e riesco a sorridere, a sorridere perfino alla vita sapendo che il mio amico c’è, con il suo sorriso sornione e dolcissimo e come sempre mi darà una pacca sulla spalla. Dicono che il mondo è maledetto: ma io e Gioacchino insieme non ci crediamo ed insieme anche con il solo pensiero della nostra amicizia, nei momenti più cupi di una giornata io riprendo quota: basta ascoltare dentro di me ed accarezzare Gioacchino con la fantasia e riesco incredibilmente a rinascere… Tanto so che in qualche parte del mio cuore c’è sempre il mio amico! Gioacchì tanti auguri! Tutto ciò che fai te lo sei meritato! La stima e l’affetto di tutti, una famiglia meravigliosa che ti adora, amici sinceri, nipoti… Tutto, tutto guadagnato per il tuo sorriso, la tua arte, la tua saggezza, il tuo mai dire no a nessuno, la tua solarità e la tua profonda intelligenza. Permettimi però l’eccezione che conferma la regola: tutto merito tuo e del tuo impegno? Sì senz’altro ma anche la fortuna, il caso, il miracolo diciamo pure e (perdonami) il culo di aver incontrato sulla tua strada una meravigliosa Barbara che -sempre mano in mano- ti ha accompagnato per una vita. Gioacchì, auguri di tutto cuore con tutto il mio cuore, Sergio.