Archivio mensile:giugno 2015

Dove non hanno potuto i Bronzi, c’è arrivato lui.

Si è fatto un gran parlare dei Bronzi di Riace all’Expo di Milano. Li portiamo o no? Vanno, o non vanno? Alla fine il conservatorismo calabrese ha vinto e i Bronzi non sono partiti per l’Expo. Ma in fin dei conti i Bronzi non sono greci, ma calabresi. E almeno un artista rappresentante della nostra regione ci doveva essere. E chi poteva esserci meglio di Saverio Rotundo, “U Ciaciu” per chi lo chiama in dialetto, “Il Ciacio” per chi lo italianizza. Il più estroso, anarchico e spesso (a grande torto) misconosciuto degli artisti calabresi. Vittorio Sgarbi può stare anche antipatico, ma come critico d’arte spesso ha visto giusto. E anche stavolta non si è smentito. L’opera di Saverio non la troverete al Padiglione dell’Expo, ma all’esposizione ExpoArteItaliana in Villa Bagatti Valsecchi a Varedo, pochi chilometri di distanza, che si inaugura il 19 giugno, insieme a molti artisti del contemporaneo italiano (e calabrese, visto che U Ciaciu non sarà il solo, ma saranno, ad esempio, ben 10 oltre a lui i giovani artisti catanzaresi presenti). A 92 anni e con qualche problema di salute non di poco conto – anche se le fonti ce lo danno in lieve ripresa –, Saverio si è tolto un’altra grossa soddisfazione. E non è poco per un artista che nella sua città, più di vent’anni fa, è stato osteggiato da gente con un livello culturale quasi rasoterra (per non dire di meno) che aveva tentato di far passare il suo deposito di opere d’arte in via Lucrezia della Valle per una discarica abusiva. Ma per fortuna oltre ai giudici a Berlino esistono anche quelli intelligenti e fu proprio un magistrato a dire che, in effetti, si trattava davvero di opere d’arte – in molti su questo non hanno mai avuto dubbi – e non di spazzatura, come ha cercato di farla passare qualcuno. E si è preso un’ulteriore soddisfazione, Saverio, sommata alle precedenti, per lui che da attempato (e poi diplomato) studente all’Accademia di Belle Arti, si è catturato la simpatia di molti dell’ambiente e l’antipatia di altri. Tutta questione di invidia, di gelosia e di mancanza di carisma.

L’opera scelta per affiancare un evento come l’Expo potrebbe suscitare qualche polemica politica, diciamo, trattandosi di un’opera di grandi dimensioni, come nel genere più classico del nostro artista, e cioè perfino satirica e al tempo stesso riflessiva, dal titolo “Pietà per Mussolini”. Ma è preferibile soffermarsi sull’attività di Saverio che iniziò proprio negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, in cui già dava prova della sua abilità creativa. I bombardamenti del 1943 su Catanzaro lo segnarono molto, anche a livello familiare. Ma, soprattutto, la sua è un’opera che smentisce senza ombra di dubbio la diceria più bugiarda di tutte nei confronti del Ciacio come artista: e cioè che egli sia un banale assemblatore di pezzi, un artigiano non creativo. Basterebbe vedere, come è capitato spesso, Saverio impegnato nel suo lavoro di fabbro-artista per togliersi ogni dubbio. Ma U Ciaciu, permetteteci il termine, se ne fotte. Qualcuno gli ha dato anche del copione, quando il suo stile è unico. “Gli artisti sono tutti latri”, ha detto spesso lui, dimenticandosi la lettera d. Ma si è sempre riferito agli altri colleghi, quelli che non avendo abilità particolari nel suo campo hanno preferito sparlare e copiare.

Della sua opera esposta a Varedo sono contenti in tanti, da noi, soprattutto i giovani e quelli che lo conoscono realmente bene. E saranno contenti i suoi amici di Capri, isola dove per diversi anni Saverio è stato praticamente un’attrazione del luogo, ma soprattutto Arnaldo Pomodoro, il celebre scultore milanese di fama mondiale che, anni fa, fu uno dei primi (e dei pochi) ad accorgersi dello spessore del Ciacio.

AURELIO FULCINITI

Gibì, dopo Cruyff il calcio totale è stato lui.

Se c’è stato un innovatore, nel calcio italiano, la palma di primo in assoluto è spettata proprio a lui, Giovan Battista Fabbri, G.B. o più familiarmente Gibì per tutti gli appassionati di bel calcio. E lo fu in tempi non sospetti, negli anni Settanta di un secolo fa, anche se sembra strano a dirlo. Erano gli anni del predominio dell’Ajax e della nazionale olandese. Il sistema di gioco degli “orange” detti anche “arancia meccanica” per la pericolosità nel colpire sotto rete in ogni momento della partita, era rivoluzionario, affascinante da veder giocare e infrangeva tutte le logiche catenacciare o simili imperanti fino a quel momento. C’era Johann Cruyff (o Cruijff, in perfetto olandese), per molti versi, ancora oggi, il calciatore europeo più forte e completo di tutti i tempi, che da attaccante e giocoliere dalla tecnica impareggiabile poteva giocare durante la stessa partita in tutti i ruoli, tranne che in porta. E c’era Ruud Krol, all’anagrafe calcistica terzino, anzi, libero, ma in realtà anche regista di centrocampo come pochi al mondo. Questa, dunque, la squadra che perse la finale del Mondiale nel 1974 contro la Germania Ovest, ma incantò il Pianeta. E lo disorientò, anche: basti vedere ancora oggi, fra le partite di quel Mondiale, Olanda-Argentina 4-0 con i biancocelesti sudamericani praticamente dispersi e surclassati in tutte le zone del campo. Poi l’Argentina vinse il Mondiale in casa nel 1978 battendo per 3-1 proprio l’Olanda, con molti favori arbitrali e un po’ di fortuna, ma questa fu un’altra storia.

In quell’estate del 1974 c’era un allenatore bravo ma non ancora affermato, che “prendeva appunti” e allenava il Piacenza, in Serie C. E lì iniziava a macinare gioco all’olandese, dominando il campionato con goleade domenicali. Gibì allena anche il Piacenza in Serie B ma il campionato, sia pure ben giocato, si conclude con una sfortunata retrocessione.

Ma c’è chi si accorge di lui, ed è il Lanerossi Vicenza in Serie B. Il suo gioco, incentrato sulla sovrapposizioni nelle fasce laterali e l’interscambio sulle corsie esterne fra terzini, centrocampisti e ali, era e fu sempre incentrato su un’unica punta centrale come terminale offensivo. Nei biancorossi questa punta mancava, ma in compenso c’era un ventenne di Prato, ala destra, che fino a quel momento si era distinto più per la fragilità dei suoi menischi che per le sue doti sul campo di calcio. Si chiamava Paolo Rossi, fisico da ala e però movimenti fulminei da centravanti. E così fu, per la fortuna di Gibì Fabbri, del Lanerossi Vicenza e del calcio italiano. Nel primo campionato, in B, Rossi segna 21 gol in 36 partite, nel secondo, in Serie A, 24 gol in 30 gare. E il Lanerossi Vicenza arriva secondo in campionato dietro la Juventus, conquistandosi il titolo ultra meritato di “provinciale” più bella d’Italia. Ma più che Paolo Rossi era il Vicenza stesso ad essere una macchina da gioco e da gol. Fra le 14 vittorie in campionato, su 30 partite, per rendere l’idea di cosa fosse quel Vicenza basta citare la gara in casa con la Roma, finita 4-3, fra le prime che fecero conoscere al pubblico della Serie A quella grande squadra, con doppietta di Paolo Rossi e reti di Cerilli e Faloppa per i veneti, e con gol di Di Bartolomei, Maggiora e Casaroli per i giallorossi capitolini. A questi c’è da aggiungere un rigore per la Roma, fallito da Di Bartolomei nel finale di partita. Per un tifoso del Vicenza, una partita da infarto, per gli altri appassionati il piacere di essere allo stadio.

Paolo Rossi nel campionato successivo segnerà altri 15 gol in 28 partite, ma la squadra, indebolita nell’assenza di molti protagonisti del suo gioco scoppiettante, retrocederà all’ultima giornata.

Gibì Fabbri nella stagione successiva, quella 1979-80, passa all’Ascoli dove conquisterà un eccellente quinto posto, massimo piazzamento dei bianconeri in Serie A. Nel frattempo Paolo Rossi è al Perugia, ma a fine stagione viene squalificato dopo lo scandalo del Totonero. Passa quindi alla Juventus e finisce di scontare la sua squalifica sul finire del campionato 1981/82. Il Ct Enzo Bearzot, facendosi scudo a fatica da una grandinata di polemiche che avrebbero intimidito chiunque, convoca Paolo Rossi per il Mundial del 1982 in Spagna come primo centravanti, e come “sostituto” Franco Selvaggi del Cagliari (oggi sarebbero scoppiate le interrogazioni parlamentari, e anche di peggio). I tre gol di Rossi contro il Brasile li ricordiamo tutti, la doppietta con la Polonia pure, per non parlare della finalissima contro la Germania Ovest. Se non ci fosse stato Gibì Fabbri non avremmo mai vinto il Mundial, con tutto il rispetto per Bearzot.

Mentre per Rossi è il momento di gloria, per Gibì sembra un periodo di bassa fortuna. Cesena, Reggiana e Catania, fra Serie A e B, non sono tappe molto felici. Ma per fortuna, nell’estate 1984, Gibì Fabbri è chiamato ad allenare il Catanzaro, che punta a vincere il campionato e a risalire subito in B. Che stagione, ragazzi! E che partite! Chi non era ancora nato non può capire, purtroppo. La Coppa Italia “maggiore” si aprì con due vittorie nel girone eliminatorio, per 2-1 in casa contro l’Udinese di Zico e per 3-0 in trasferta a Lecce. Ma è in campionato che la squadra fa il botto: 54 gol segnati in 34 partite, di cui 43 nelle 17 partite in casa, un record tuttora imbattuto per i giallorossi e difficilmente battibile ancora oggi. E ci fu anche un altro record, anch’esso imbattuto: su ben 11 calciatori su 17 (esclusi i portieri), andarono a segno: Pino Lorenzo 18 gol, Gregorio Mauro 6, Salvatore Pesce 5, Leonardo Surro, Gaetano Musella e Armando Cascione 4, Antonio Sassarini 3, Carmelo Bagnato e Antonio Soda 2, Flavio Destro e Agostino Iacobelli 1. Non andarono in gol solo Paolo Benetti, Roberto Borrello, Antonino Imborgia, Massimo Pedrazzini, Ezio Panero e Giampiero Cardinali.  Per poco non segnò anche il portiere Massimo Bianchi, ma l’ultimo tocco fu in realtà del difensore Destro (padre dell’attuale attaccante della Roma e del Milan). Quattordici vittorie in diciassette gare casalinghe senza mai andare a secco di reti. Vittorie per 4-0 contro Akragas e Barletta, per 4-1 contro il Cosenza, per 4-2 contro il Messina e la Reggina. Attacco devastante e difesa un po’ ballerina, in perfetto stile Gibì. Per molti di quei calciatori avuti in giallorosso, Gibì Fabbri fu come un padre, per i tifosi fu un motivatore, un trascinatore, a partire dalla voce, una cadenza emiliana che trasmetteva entusiasmo.

Gibì Fabbri fu anche, all’inizio degli anni Novanta, il “profeta” della Spal, squadra di Ferrara, sua città di adozione, con la quale conquistò due promozioni consecutive fino ad approdare in Serie B, con prestazioni – soprattutto in casa – contrassegnate dal consueto, a volte impressionante volume di gioco.

Gibì, l’allenatore indimenticabile. Da oggi non c’è più, ma di essere il più grande per i tifosi delle società che ha allenato vincendo, lui l’ha sempre saputo.

AURELIO FULCINITI