Archivio mensile:giugno 2023

Umberto Falvo, senza compromessi

Nell’iniziare a descrivere Umberto Falvo (Catanzaro, 7 settembre 1955), si può affermare tranquillamente, senza tema di smentite, che il suo rapporto con l’Arte, passionale e continuo, è una linea tesa all’infinito che non conoscerà mai confini. Pittore, ma anche scenografo, grafico, illustratore e persino poeta, è artista nell’accezione cognitiva più ampia del termine. Ma la sua maggiore peculiarità sta nel non aver mai accettato compromessi. Al farsi conoscere, preferisce da sempre l’essere riconosciuto. Il suo è per così dire un narcisismo positivo, perché nel mondo dell’arte gli ha permesso di chiudere varie porte e di non aprirne proprio alcune altre, e di entrare solo laddove i suoi reali meriti potevano venire fuori. In un mondo dell’arte dove il mercantilismo è sempre più sfrenato e un pittore deve pagare spesso di tasca propria luoghi in cui esporre, galleristi e critici accreditati per ottenere un riconoscimento sia nominale come identità artistica che nominativo in senso stretto, quando non addirittura di effettivo merito, Umberto Falvo ha deciso di non sottostare, di non pagare prezzi reali o morali, ma di essere riconosciuto a tutti i costi – e non senza sforzo – per ciò che vale. E si può dire – ascoltando il suo racconto – che da parte sua c’è riuscito, e non ha intenzione di fermarsi.

Per riuscirci, non ha esitato a confrontarsi con le personalità più titaniche ed ingombranti, sia artisticamente che intellettualmente, entrando in luoghi poco frequentati e stando sulle sedie più scomode, ma senza sentirsi su un piedistallo. Anzi, il contrario, perché per lui ergersi equivale a non uscire dal provincialismo e dalla finta gloria.

Non omette nulla nel raccontarsi, nessun nome o episodio controverso, ma narra tutto il suo vissuto, ogni passaggio, ogni tappa importante di un percorso che lui definisce assolutamente libero e che è destinato a durare finché dureranno l’uomo e l’artista. Ma è anche generoso nel parlare delle personalità culturali che ha conosciuto bene, con cui ha lavorato e dalle quali ha avuto sostegno. Conosce la gratitudine, Umberto, e ci tiene ad esternarla.

Come artista difende in maniera netta, trinciante in alcuni passaggi, ma in sostanza del tutto coerente, la sua posizione artistica di avanguardia e di totale rottura delle tradizioni, mettendo in secondo piano, se non ancora più indietro, la tecnica pittorica, da lui ritenuta sorpassata, quando non addirittura nociva per la maturazione e la crescita dell’artista moderno.

Sempre dalla porta più stretta promette di passare, Umberto Falvo, ma con lo stesso spirito col quale ha iniziato e senza mai pensare di fermarsi, ma ripartendo ogni volta dall’ultimo traguardo raggiunto come se fosse il primo.

Partiamo da molto tempo fa e cioè da quando tu, giovane studente dell’Accademia di Belle Arti, eccellevi nel figurativo e Carmine Di Ruggiero, il direttore di allora, ti suggerì: “Devi guardare avanti”. Oggi cosa vedi nel seguito di questa esortazione che ha inciso fortemente nella tua carriera?

“Il tempo è una dimensione a me sconosciuta. Mi è capitato di scrivere qualcosa sul tempo, perché mi ero interrogato “sul mio tempo” e ho scritto questo: “Di un tempo senza tempo è la mia storia”. Perché se devo dare al tempo il valore degli anni che sono passati, devo dire “oggi sei anziano” e cioè diversamente giovane, ma il mio tempo non ha tempo. Quando ero studente all’Accademia di belle Arti a Catanzaro, frequentavo il corso di pittura e dividevo la postazione di lavoro, una stanza non tanto grande, con il mio amico Gabriele Bianco: eravamo stati compagni di Liceo e poi all’Accademia, per tanti anni trascorsi insieme, e quindi molto amici. Al termine del primo anno accademico Di Ruggero, all’esame finale, mi diede un voto molto soddisfacente e mi disse: “Devi pensare che i tempi del liceo sono finiti. Devi cambiare il modo di fare pittura e lasciare stare quello che sai fare perché ormai lo fai bene. Ci siamo capiti?”. Intanto mi ero iscritto alla Scuola Libera del Nudo tenuta dal Prof. Tony Pileggi, grande artista e amico di mio padre, il quale insisteva sempre: “Vai dal professore Pileggi e impara”. In verità ho fatto tutte e due le cose, perché ho cambiato il mio modo di dipingere e nello stesso tempo imparavo e “rubavo” le tecniche pittoriche. E così, all’esame finale del secondo anno il Di Ruggero mi diede un voto più alto dell’anno precedente, ma aggiunse molto chiaramente: “Hai le capacità di essere un bravo studente, ma non ti fissare solo su quello che sai fare, perché devi cambiare”. Effettivamente io ero già cambiato, perché la mia pittura e i miei studi si erano rivolti alla pittura metafisica ed esoterica, a Nicolas Poussin, Giorgio De Chirico, al fratello Alberto Savinio, ad Arnold Bocklin, Johann Heinrich Fussli, William Blake, Odilon Redon, Max Klinger, pittori visionari e metafisici che insieme a poeti e filosofi hanno scoperto l’inconscio prima che Freud ne decifrasse un metodo scientifico di introspezione, per poi passare a Carrà, Morandi, De Pisis, Chagall e Mirò. Era però una pittura figurativa, descrittiva, ma questo ancora non bastava e non si conformava al pensiero del Maestro Di Ruggero, che all’esame finale del terzo anno accademico mi diede un voto per me incomprensibile: “18”. La mia non era delusione, ma rabbia, tanta rabbia, perché nei due anni precedenti i miei voti erano in linea con i migliori studenti e adesso al terzo anno arrivava una valutazione molto discutibile, una delusione grande. Mi rendevo conto che non facevo parte del cerchio magico che si era creato intorno alla sua persona, con studenti e studentesse a lui molto vicini nelle frequentazioni, che erano sempre presenti a tutti gli eventi, mentre io non c’ero. Naturalmente chiesi un chiarimento e fu in quell’incontro difficile, ma davvero chiarificatore, che mi disse: “Devi guardare avanti, devi cambiare. Ti avevo detto che questa pittura è passata, non è al passo con i tempi. Devi distruggere la figura, devi guardare avanti, oltre”.  Non era l’unico che mi esortava a cambiare, a guardare avanti, e allora capii, con parole mie, che “L’Arte, l’arte vera è una forma di sacralità che è cambiata. È sofferenza e ricerca. È disciplina e lavoro interiore, che ti macina dentro”. Tutto questo ha motivato la mia pittura e la mia ricerca. Il Maestro Di Ruggero non è stato una guida, ma uno che mi ha aperto gli occhi. Altri poi sono stati gli artefici del mio vero cambiamento, e non parlerei di carriera, bensì di un percorso”.

Quanto è importante per te la tecnica e come ha influito e tracciato il tuo percorso artistico?

Mi è difficile veramente parlare di tecnica, perché è una cosa che si acquisisce, la si trasmette agli studenti, e c’è il rischio reale che ogni allievo alla fine dipinga come il suo maestro. Ci sono scuole di pittura dove i maestri insegnano la propria tecnica, che rende gli allievi tutti uguali, bravi forse, ma uguali, perché se riproducono una natura morta, lo è davvero, proprio morta, perché non c’è anima nell’opera, ma solo tecnica. La pittura iperrealista, che riproduce i particolari quasi come la fotografia, era importante in America negli anni Cinquanta del secolo scorso, ma poi piano piano è progressivamente scemata. Nell’arte è cambiato tutto e solo i pochi che vivono di arte, riproducendo quello che vedono – e cioè figure, paesaggi, marine, montagne, nature morte, fiori, vicoli, case e quant’altro – si accontentano di un mercato povero.

Ricordo che eri restio a vendere delle tue opere, perché ti sembrava inopportuno darle a chi non provava le tue stesse emozioni ed avevi rifiutato anche delle offerte allettanti. Sei sempre dello stesso parere?

È vero, non ho cambiato parere e non vivo nell’oro, ma questo non mi induce a svendere il mio lavoro. Chi compra una mia opera deve essere in linea con il mio pensiero.

La tua arte, come hai ammesso più volte, è strettamente legata alla Metafisica di Giorgio De Chirico e Alberto Savinio ed all’Action Painting di Jackson Pollock. Quanto, il credo di questi grandi artisti è entrato concretamente nella tua formazione e nello sviluppo successivo?

È vero anche questo: la mostra di tanti anni fa dal titolo “Dal pensiero metafisico alla metafisica del pensiero. Idee per una pittura informale”fu il frutto di giorni e notti passate insieme al grande Francesco Grisi, intellettuale illuminato, Segretario Generale del Sindacato Liberi Scrittori che poi era una sua creatura, oltre a Sergio Paolo Foresta, scrittore, poeta e uomo di grande cultura, allora Presidente Regionale del Sindacato Libero Scrittori, e al caro professore Cesare Mulè. Sono tutte figure che mi mancano tanto, ma non mi dimentico di tanti altri cari amici che mi hanno onorato e mi onorano ancora della loro amicizia. Con quest’interazione si è realizzata la mostra che ha segnato il passaggio definitivo che ha contraddistinto la mia pittura, dalla metafisica dechirichiana alla pittura informale. Io credo fermamente che l’artista debba rimanere fedele alla sua ispirazione e quindi tradurla in forma. Ti dico che importa meno l’effetto di meraviglia, d’incanto o di respingimento che può suscitare in chi legge l’opera, se l’artista se non è compromesso e non si lascia mercanteggiare, ed è libero nell’andare avanti per la sua strada, trasformando in gestualità un pensiero che prima aveva forma e immagine.

Anni fa hai detto che “il colore è un pigmento chiuso nella lampada di Aladino: aspetta di uscire per dare il meglio di sé stesso”. Puoi spiegare nel dettaglio e nell’essenza questa metafora?

Il colore è magia, ed è contenuto in tubetti, vasetti, bottigliette, ed è lì che aspetta che qualcuno lo faccia uscire, che lo liberi, come il genio della lampada costretto a stare chiuso, ma poi qualcuno lo fa uscire da questo stato, lo mischia con altro colore e da due colori ne nasce un terzo e un quarto diverso dai primi due e dall’altro: questa è l’alchimia, che si trasmuta a seconda di chi regola il procedimento. È il colore che vuole diventare altro, cambiare da chiaro a scuro, da giallo e rosso in arancione, da blu e giallo a verde ed a colori più chiari o più scuri, più densi o meno densi, ma che hanno bisogno di dare compimento all’opera del tuo pensiero, alla trasformazione del colore per meglio compiere e rendere davvero “un’Opera” il tuo lavoro, Ti ho parlato tempo fa dei miei cerchi di colore, ricavati dalla sedimentazione degli smalti. Li ho scoperti aprendo i barattoli di colori, quando notavo che lo strato superiore si era solidificato ed era duro, e quindi per poter utilizzare il colore sottostante dovevo rimuoverlo. Una sera, compiendo quest’operazione, mi venne naturale di reimpiegare il colore che prima era fluido e poi con il tempo solido, ed ho pensato di ridare a quel colore la stessa dignità che aveva prima, e da allora li ho sempre inseriti nelle mie opere. Quel cerchio è l’emblema della Vita e della Morte, in una circolarità che è la disposizione, “ab ovo”, degli esseri umani.

Nelle tue opere c’è sempre un messaggio o una chiave di lettura importante. Come parte in te la genesi del messaggio e quanto è importante l’intensità della sua forza?

Un lavoro non è mai banale, perché è frutto di una idea, di un pensiero iniziale, di un concetto, che poi naturalmente può cambiare nel corso della sua evoluzione e necessariamente ha bisogno di una struttura in cui la chiave di lettura sta nell’equilibrio che si vuole dare all’opera, perché l’osservatore deve avere una visione completa e poi piano piano affrontare un viaggio tra i colori e le forme che la compongono. È questa la forza, l’equilibrio, il bilanciamento, la realizzazione del pensiero iniziale.

Nella tua carriera hai incontrato grandi artisti, senza dubbio. Quali sono stati gli incontri più importanti, quelli che ricordi meglio e che per te hanno contato di più?

Sono stato un uomo fortunato, perché da giovane ho avuto la fortuna di conoscere tanti artisti, tanti uomini e donne che hanno generato arte in diversi campi e competenze e comunque sempre persone di grande cultura. Fin dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso sono stato introdotto in salotti culturali di una certa importanza e di rilievo formativo notevole a Roma, Firenze, Torino, Milano e tante altre città, ma non mi va di fare i nomi di tanti che oggi non ci sono più, e di tanti altri non li ricordo nemmeno. Ho però vivo il ricordo del fuoco istruttivo, artistico e creativo che mi trasmettevano.

La tua opera esposta a Roma, dedicata alla lotta per la libertà delle donne in Iran ha avuto grande successo nell’esposizione “Women life freedom”. Puoi raccontare come è andata?

A Roma la mostra “Women Life Freedom” è stata un successo, è l’idea iniziale è stata dell’attrice Marisa Laurito che da anni è vicina a chi è succube in un mondo di violenze e maltrattamenti. La gallerista e critica d’arte Sabina Fattibene, che mi conosce artisticamente da molti anni, mi ha voluto onorare invitandomi a questo evento. È stato un successo di pubblico e di riconoscimenti. Una serata speciale, un grande evento che ha dato visibilità al dramma delle donne iraniane, un percorso che non si ferma ma continua con altri importanti momenti di condivisione.

Quanto è importante la libertà, sia personale che artistica?

La libertà è una parola, ma per me è un modo di essere e di esprimermi. La libertà è non avere padroni, mercanti, imposizioni, galleristi che ti pagano per farti produrre opere scadenti e sempre in maggiore quantità, che ti dicono di lavorare a contratto, tante opere tanti soldi. Molti che riescono ad avere un contratto di questo tipo si dicono fortunati, e li capisco pure. Una cara persona mi ha detto “io devo pure vivere, e ho bisogno”. Ecco, questa è la fortuna di essere liberi e indipendenti, che ti permette essere artisticamente libero e di non avere compromessi.

L’impegno civile quanto conta nell’arte e quanto può incidere?

L’arte ha sempre contribuito a rivoluzioni, storiche, artistiche e culturali. Quello che non si poteva dire è stato dipinto, scritto in versi, scolpito sui muri. Le guerre sono state fatte dagli artisti sotto tutti gli aspetti, ed innumerevoli sono gli esempi di uomini e donne morte per un ideale. Sono certo che l’Arte vera, quella con la A maiuscola, contribuisce anche oggi a fare la differenza per il bene dell’umanità.

L’Accademia italiana di Arte e Letteratura ti ha nominato fra i suoi membri e il tuo ingresso è stato ufficiale il 12 maggio scorso. Come accogli questo riconoscimento?

Il 12 maggio 2023 è stato un giorno importante, perché sono stato chiamato e riconosciuto con altri artisti a far parte di un’Accademia, in questo caso dell’Accademia Italiana di Arte e Letteratura, e del Movimento Artistico degli Effettisti, e di ciò mi sento molto onorato. Sono già membro di altre Accademie e Istituzioni ma ogni riconoscimento ha il suo fascino, e farne parte è motivo di orgoglio non solo per me ma anche per chi in me in questi anni ha creduto.

Dei riconoscimenti ricevuti in passato, quali sono quelli a cui sei più legato?

Ogni riconoscimento è un momento particolare della propria vita. Non c’è né uno più importante, ma sono ricordi che ti restano dentro, indelebili uno per uno e per sempre.

La tua arte guarda al futuro, come anche la tua persona. Cosa vedi da qui in avanti? Se avrò la fortuna di vivere ancora a lungo, e avrò la forza di lavorare per creare altre opere, farò quello che so fare. Altro non so, perché per vedere avanti dovrei avere il dono dell’onniscienza.

Non meno importante di quella di pittore, è stata la tua attività di scenografo. Hai iniziato con il Centro d’Arte Drammatica di Catanzaro con Gianni Diotajuti. Ci parli del Centro, per chi non lo ha conosciuto, e della tua attività di scenografo?

A metà degli anni Settanta Cesare Mulè e altri, fra cui Antonio Panzarella pensarono di fondare un Teatro Scuola a Catanzaro. Nacque come scuola di dizione e poi divenne Teatro Scuola. A dirigerlo chiamarono Gianni Diotajuti, che ha “fatto parlare” cantanti poi divenuti celebri e soubrette televisive importanti, oltre a tanti altri attori di cinema e di teatro. Iniziata l’attività, ogni fine anno bisognava fare un saggio. All’inizio erano spettacoli non difficili da realizzare e si potevano tenere al Teatro del Minorile, ma con il crescere del numero degli allievi si affrontarono spettacoli più impegnativi, con opere di Eliot, Albee, Patroni Griffi, Ionesco, Brecht, Shakespeare, Goldoni, Shaw, Garcia Lorca e Pirandello, tanto per citare gli autori più importanti. Fra gli allievi più noti cito Adele Fulciniti, Diego Verdegiglio e Sara Tafuri. Sono diventato lo scenografo ufficiale e l’esperienza è durata tanti anni. Abbiamo fatto spettacoli anche in location meravigliose come la Basilica della Roccelletta. Ho fatto talmente tante cose in quel periodo che neanche me le ricordo tutte.

Da scenografo hai curato anche due prime nazionali ed hai conosciuto pure Franco Zeffirelli. Ce ne parli?

Ho fatto le matinee per le scuole con Adele Fulciniti e ho realizzato spettacoli come “Piccole Donne”. Ma un altro lavoro importante che ho fatto con lei è stato lo spettacolo giapponese “Yuzuru”, ovvero “La gru della sera”, di Kinoshita Junji, rappresentato al Minorile e poi in Prima nazionale assoluta al Teatro “La Scaletta” di Roma. “Piccole Donne” fu realizzato apposta per Franco Zeffirelli, ma lui prima di venire a Catanzaro volle vedere i bozzetti di scena e tutto il resto. Andammo tante volte a trovarlo per illustrargli tutto e lui alla fine dello spettacolo mi chiamò sul palcoscenico per farmi i complimenti. Lo spettacolo era su due livelli e Zeffirelli pensava che il Masciari fosse un teatro attrezzato con macchine di scena e macchinisti. E quindi rimase molto sorpreso quando capi che da un livello all’altro era collegato da uno “sgabellone” dal quale un omone prendeva le attrici e le faceva salire e scendere tipo ascensore. “Solo il genio di un calabrese poteva inventarsi una cosa del genere”, mi disse. Ed autografò per me il bozzetto dello “sgabellone”.

Tornando infine alla pittura, mi sa che dobbiamo concludere parlando di un evento molto importante, e cioè della donazione di una tua opera al Parlamento dello Stato di San Paolo, in Brasile. Ci puoi raccontare com’è andata?

Si organizzavano le selezioni calabresi per la Biennale di Roma, che io ho vinto almeno cinque o sei volte, non mi ricordo più quante. Fra queste edizioni c’è stata quella con il gemellaggio Italia-Brasile con la mia opera “Esplosione” esposta alla galleria “Spazio Surreale” di San Paolo del Brasile. Il tutto grazie a Livia Bucci, perché i vincitori non pagavano per esporre. Emanuel von Lauenstein Massarani, Soprintendente del Patrimonio Culturale dell’Assemblea dello Stato di San Paolo, se ne innamorò, ma voleva solo una parte dell’opera, perché tutta era troppo grande. “Non la posso certo tagliare”, dissi io. “La facciamo ridurre noi serigraficamente, perché Massarani ci tiene in maniera particolare”, mi fu risposto. La qualità la scelgono gli altri, e questa nell’arte è una grande verità.

Aurelio Fulciniti

Nella foto, Umberto Falvo, “Caos cosmico – Equinozio di primavera”